Dall’Imbriago al Morlacco fino al Bastardo del Grappa compreso il più recente Pecorino della Serenissima: sono tutti formaggi identitari del territorio veneto a rischio a causa del caro bollette. Coldiretti Veneto segnala che una stalla su dieci (9%) è in una situazione così critica da portare alla chiusura, causando rischi all’ambiente, all’economia, all’occupazione e alla sopravvivenza del patrimonio agroalimentare Made in Italy, a partire dai prodotti caseari più tipici della montagna.
L’allarme è stato lanciato in occasione dell’apertura ufficiale della Fiera agricola e Zootecnica di Montichiari (la più importante manifestazione italiana a livello internazionale dedicata all’allevamento) con la prima mostra sulle eccellenze casearie italiane a rischio scomparsa. Un modo questo per raccontare la ricchezza del patrimonio della biodiversità italiana con razze antiche e in via di estinzione, salvate dal lavoro delle famiglie di agricoltori e allevatori.
La situazione interessa direttamente il patrimonio zootecnico regionale che realizza 500 milioni di fatturato pari a 10 milioni di latte munto destinato ad un’eccellenza casearia di assoluto pregio, visto che più del 60% del latte è impiegato per le pezze blasonate: per il Grana Padano si impiegano più di 4 milioni di quintali di latte, per l’Asiago quasi 2 milioni, altrettanto significativa è la quantità per il Montasio, il Piave e il Provolone Val Padana. Chiudono la classifica il Monte Veronese e la Casatella Trevigiana.
A strozzare gli allevatori italiani è una esplosione delle spese di produzione (in media del +60% legata ai rincari energetici) che arriva fino al +95% dei mangimi, al +110% per il gasolio e addirittura al +500% delle bollette per l’elettricità necessaria ad alimentare anche i sistemi di mungitura e conservazione del latte, secondo l’analisi Coldiretti su dati Crea.
Particolarmente drammatica la situazione delle stalle di montagna: il caro bollette sta costringendo aziende a chiudere ed abbattere gli animali, con un calo stimato della produzione di latte del 15% che impatterà sulla produzione dei formaggi di alpeggio. A rischio c’è l’intero patrimonio caseario tricolore con 580 specialità casearie, 55 Dop (Denominazione di origine controllata) e 525 formaggi tipici censiti dalle Regioni. Quest’ultimi hanno regalato all’Italia la leadership a livello europeo davanti alla Francia, la patria del camembert che, come affermava De Gaulle, “ha più formaggi che giorni nel calendario“.
“Una realtà – sottolinea Coldiretti – che soffre per lo spopolamento della montagna e delle aree interne più difficili dove mancano condizioni economiche e sociali minime per garantire la permanenza di pastori e allevatori. Tutto questo è spesso causato dei bassi prezzi e per la concorrenza sleale dei prodotti importati dall’estero e, ad oggi, anche con la minaccia del latte sintetico, realizzato in laboratorio e sostenuto da investimenti milionari da parte delle multinazionali”.
Allo tsunami scatenato dalla guerra in Ucraina si aggiunge il problema della revisione della direttiva sulle emissioni industriali. Essa equipara una stalla con 150 mucche, un inceneritore o una fabbrica altamente inquinante, colpendo circa 180 mila allevamenti esponendoli al rischio chiusura con un effetto domino sulle attività collegate.
Un crollo della capacità produttiva che rischia di essere sostituita da importazioni da Paesi che non applicano le pratiche sostenibili allevatoriali, caratterizzanti il sistema produttivo europeo o, ancora peggio, dalla spinta proprio alla produzione di cibi sintetici. Da qui la richiesta di rivedere la direttiva, che non tiene conto della circolarità dell’attività zootecnica, in termini di sostenibilità e delle riduzioni delle emissioni ottenute dal settore negli ultimi anni.
“E a rischio – continua Coldiretti – c’è anche il presidio del territorio dove la manutenzione è garantita proprio dall’attività di allevamento con il lavoro silenzioso di pulizia e di compattamento dei suoli svolto dagli animali”.
“Quando una stalla chiude – conclude il presidente della Coldiretti Ettore Prandini – si perde un intero sistema fatto di animali, prati, formaggi tipici e soprattutto di persone impegnate a combattere, spesso da intere generazioni, lo spopolamento e il degrado. La chiusura di un’azienda zootecnica significa anche che non riaprirà mai più, con la perdita degli animali e del loro patrimonio genetico custodito e valorizzato da generazioni di allevatori. Per questo è necessario intervenire subito per contenere il caro energia ed i costi di produzione con misure immediate. Bisogna salvare le aziende e le stalle strutturali per programmare il futuro, anche tramite accordi di filiera tra imprese agricole e industriali. Obiettivi precisi, qualitativi, quantitativi e prezzi equi che non devono scendere mai sotto i costi di produzione”.
(Foto: Coldiretti).
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