Come si misura il locavorismo?

Abbiamo imparato ormai da tempo il significato del termine locavorismo: mangiare local per pensare global.

Il termine “locavorismo” può suonare come un neologismo complicato, ma il concetto alla sua base è piuttosto semplice e intuitivo. Deriva dall’unione delle parole “local” (locale) e “vorare” (mangiare in latino), e si riferisce a uno stile alimentare basato sul consumo di cibi prodotti localmente.

Ma cosa significa esattamente “locale” nel contesto del locavorismo? Generalmente, si considerano “locali” i prodotti coltivati o allevati entro un raggio di circa 100-160 km dal luogo di consumo. Tuttavia, questa definizione può variare a seconda del contesto geografico e culturale.

Negli ultimi anni si è diffusa l’idea che mangiare prodotti locali, a “chilometro zero”, sia la scelta più sostenibile per l’ambiente. Ma quanto c’è di vero in questa convinzione? Recenti studi mettono in discussione alcuni assunti del locavorismo, invitandoci a una riflessione più approfondita.

L’idea alla base del locavorismo è intuitiva: meno chilometri percorre il cibo, minore sarà l’impatto ambientale. Tuttavia, la realtà è più complessa. Uno studio dell’Università di Pittsburgh ha rivelato che negli Stati Uniti solo l’11% delle emissioni di gas serra legate al cibo deriva dal trasporto, mentre la maggior parte è prodotta dalle fasi di coltivazione e produzione. Scegliere cibi locali potrebbe quindi ridurre le emissioni familiari solo del 4-5%.

Anche in Europa la situazione è simile. Una ricerca del Ministero dell’Ambiente britannico ha stimato che circa il 9% delle emissioni di gas serra legate al cibo è attribuibile al trasporto, inclusi gli spostamenti dei consumatori per fare la spesa.

Ma non è solo una questione di chilometri. Paradossalmente, in alcuni casi produrre localmente può essere meno sostenibile. Un esempio emblematico riguarda i pomodori: coltivarli in serre riscaldate nel Regno Unito produce quasi quattro volte più emissioni rispetto a importarli dalla Spagna, dove il clima è più favorevole. Fattori come il terreno, le tecniche di coltivazione e il clima giocano un ruolo cruciale nella sostenibilità di un prodotto.

Va considerato anche lo spreco alimentare: nei paesi in via di sviluppo, la mancanza di infrastrutture adeguate porta a perdite significative nelle fasi di raccolta e stoccaggio. Nei paesi industrializzati, invece, lo spreco avviene più spesso nella vendita al dettaglio e nelle case.

Il locavorismo estremo potrebbe inoltre limitare la varietà nutrizionale della dieta e aumentare i costi, con potenziali impatti negativi sulla salute pubblica e sull’accessibilità del cibo.

In Italia, secondo l’Ismea, la produzione agricola è responsabile del 45% delle emissioni di gas serra legate al cibo, mentre i trasporti incidono per il 19%. Nonostante ciò, la tendenza degli italiani a preferire prodotti locali è in crescita.

Cosa possiamo concludere? Il locavorismo non è la panacea per tutti i problemi di sostenibilità alimentare, ma può avere benefici se praticato con consapevolezza. La scelta responsabile di ciò che mangiamo resta fondamentale, ma dovrebbe basarsi su una valutazione complessiva che includa metodi di produzione, stagionalità e impatto ambientale globale, non solo sulla distanza percorsa dal cibo.

In definitiva, la sostenibilità alimentare è un puzzle complesso, di cui il chilometro zero è solo un tassello. Un approccio informato e bilanciato, che tenga conto di tutti i fattori in gioco, è la chiave per fare scelte davvero rispettose dell’ambiente e della nostra salute.

(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
(Articolo e foto di proprietà di Dplay Srl)
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