Il Dandolo, il “delfino d’acciaio” dello spionaggio italiano in mostra all’Arsenale. Il sottomarino fu un vanto della Marina

Sono gli anni degli Stati Uniti e della Russia, di un mondo diviso in due blocchi. Sono gli anni della corsa alla luna, ma anche della paura per la bomba atomica. Sono gli anni in cui Sean Connery non era l’unico a recitare nei panni di James Bond. Anzi, non si recitava proprio per niente. Fare la spia era un lavoro serio, uno di quelli che andava all’epoca.

Sono gli anni della Cia, del KGB. Sono gli anni in cui il mondo, si può dire, era in pace per finta.E poi, sono gli anni di quelli che vengono chiamati i “delfini d’acciaio”, sommergibili agili, veloci, silenziosi, perfetti per sorvegliare il Mediterraneo alla ricerca di dati sospetti.

Nell’epoca dello spionaggio anche queste creature artificiali giocavano la loro parte. In particolare, ci riferiamo al Dandolo, il sottomarino della Classe Toti, costruito negli anni Sessanta e messo in disarmo con la fine della Guerra Fredda. La Classe Toti, che prende il nome da Enrico Toti, patriota italiano che combatté tra le fila dei Bersaglieri, si compone di quattro unità (Toti, Bagnolini, Dandolo e Mocenigo), sottomarini a propulsione diesel-elettrica costruiti per la Marina Militare Italiana tra il 1965 e il 1968, realizzati dalla Italcantieri negli stabilimenti di Monfalcone.

In gergo vengono classificati “SSK” (Submarine Submarine-Killer), cioè destinati alla lotta antisommergibile: il loro compito? Dare la caccia ai sottomarini nucleari nel Mediterraneo durante la contrapposizione tra blocco occidentale e orientale. La loro attività, tuttavia, non si risolse mai in azioni offensive, si limitò alle esercitazioni interalleate nel Mar Mediterraneo tra gli anni ’70 e ’80.

Dei quattro, il sottomarino di cui ci occupiamo è il Dandolo, ora esposto all’Arsenale di Venezia, così chiamato in onore di un altro grande personaggio del passato, il quarantunesimo doge di Venezia, Enrico Dandolo, il quale, abile scacchista della politica del tempo, non si lasciò scappare l’occasione offertagli dalla quarta crociata, riconquistando Zara ed espugnando Costantinopoli, gettando così le basi dell’impero coloniale veneziano.

Lungo 46 metri – l’equivalente della metà di un campo da calcio – e largo 4,75 metri, con una massa pari a 593 tonnellate in immersione, nell’abisso della Guerra Fredda, il terzo sottomarino della Classe Toti poteva spingersi fino a 150 metri di profondità. Questo significa solo una cosa: nessun contatto col mondo di sopra. È buio, buio assoluto.

Forse solo nello spazio l’uomo si sente così isolato. Ma soli per davvero in un sottomarino non si era mai. Gli uomini a bordo erano ventisei, quattro ufficiali e ventidue tra sottoufficiali, sottocapi e marinai. In spazi ristretti e angusti si davano il cambio montando la guardia divisi in più gruppi a seconda dell’importanza della missione.

Dopo le quattro ore di vedetta si spostavano nell’area dedicata all’equipaggio, dove avrebbero dormito in brandine proprio al di sopra dei siluri da guerra (per il Dandalo erano previsti 4 tubi lanciasiluri da 533 mm per siluri filoguidati a testa autocercante A 184). Il battello disponeva poi di un solo servizio igienico, ma, di nuovo, la comodità da crociera non era pretesa: erano uomini in missione, non certo in vacanza.

Dopo circa una quindicina di giorni in fondo al mare il Dandolo risaliva in superficie grazie al principio di Archimede che aveva sfruttato anche per scendere: un equilibrio perfetto tra acqua e aria. Se per immergersi il sottomarino fa entrare da una parte l’acqua (attraverso l’apertura delle prese a mare) e dall’altra l’aria (attraverso gli sfiatatoi), per riemergere accadrà il contrario: svuoterà gradualmente le casse, precedentemente allagate, immettendo aria compressa nei serbatoi.

Dopo quasi trent’anni di servizio il 30 settembre 1996 il Dandolo viene radiato. Le ostilità sono cessate, il Muro di Berlino è crollato, anche il sottomarino dal motto “Secondo a nessuno” deve cedere al disarmo.

Ma per i sommergibili non è ancora giunta l’ultima ora. A oggi la Marina militare ne possiede otto e il loro continua a essere un servizio per l’intelligence, in cui l’imperativo “osservare senza essere visti, ascoltare senza essere sentiti” scandisce tuttora il ritmo di lavoro. Solo che stavolta nel radar ci sono i traffici illegali (armi, droga, ma anche uomini) che agitano le acque, da sempre inquiete, del Mediterraneo.

(A cura di: Sofia Sossai).
(Foto: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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