Darwin, il genio che ancora ci sfida: una settimana per comprenderlo

Le celebrazioni per il Darwin Day, tradizionalmente fissate il 12 febbraio per commemorare la nascita del grande naturalista inglese, hanno ormai travalicato i confini della singola giornata, trasformandosi in una vera e propria “Darwin Week”.

Il weekend appena trascorso ne è la testimonianza più evidente: una fioritura di eventi, conferenze, dibattiti e iniziative culturali ha animato musei, università e centri di ricerca in tutta Italia, coinvolgendo scienziati, divulgatori e pubblico in un dialogo sempre più necessario sulle implicazioni della teoria dell’evoluzione. Questa dilatazione temporale delle celebrazioni darwiniane riflette non solo l’inesauribile attualità del pensiero evolutivo, ma anche la crescente necessità di creare spazi di confronto per affrontare le persistenti resistenze cognitive e culturali che ancora oggi si oppongono alla piena comprensione della teoria dell’evoluzione per selezione naturale.

E proprio queste resistenze cognitive, a più di 160 anni dalla formulazione della teoria, continuano a rappresentare un ostacolo significativo. La difficoltà non deriva tanto dalla complessità concettuale della teoria in sé, quanto dal fatto che essa si scontra con alcuni meccanismi fondamentali del nostro modo di pensare, che si sono evoluti nel corso della storia della nostra specie.

Il nostro cervello è infatti naturalmente predisposto a vedere intenzionalità e progetto negli eventi e nelle strutture che ci circondano. Fin da piccolissimi, i bambini tendono ad attribuire scopi e intenzioni non solo agli esseri animati, ma anche agli oggetti inanimati. Questa tendenza, definita “teleologia promiscua”, ci porta istintivamente a cercare un progettista dietro a qualsiasi struttura complessa e apparentemente finalizzata a uno scopo.

L’idea che la complessità e la funzionalità degli organismi viventi possano emergere attraverso un processo cieco e non direzionato come la selezione naturale risulta quindi profondamente controintuitiva. Il nostro sistema cognitivo è infatti equipaggiato per riconoscere agenti intenzionali e le loro azioni, poiché questa capacità è stata fondamentale per la sopravvivenza dei nostri antenati. Di conseguenza, facciamo fatica ad accettare spiegazioni che non fanno riferimento a scopi e intenzioni.

Un altro ostacolo è rappresentato dalla difficoltà di comprendere il ruolo del caso nell’evoluzione. Le mutazioni genetiche che forniscono il materiale grezzo su cui agisce la selezione naturale sono infatti casuali rispetto al loro eventuale valore adattativo. Questo contrasta con la nostra tendenza a vedere correlazioni e causalità anche dove non esistono, come dimostrato da numerosi studi di psicologia cognitiva.

Inoltre, il processo evolutivo opera su scale temporali enormemente più ampie rispetto a quelle della nostra esperienza quotidiana, rendendo difficile visualizzare e comprendere i suoi effetti cumulativi. L’accumulo graduale di piccoli cambiamenti che porta nel tempo a grandi trasformazioni non è qualcosa che possiamo osservare direttamente.

La teoria dell’evoluzione ci chiede quindi di abbandonare alcune delle nostre intuizioni più radicate sul funzionamento del mondo naturale. Non sorprende che questo risulti particolarmente difficile, dato che tali intuizioni sono esse stesse il prodotto della nostra storia evolutiva. Paradossalmente, proprio i meccanismi cognitivi che ci hanno permesso di sopravvivere e prosperare come specie ostacolano oggi la nostra comprensione del processo che li ha generati.

La sfida educativa consiste quindi non tanto nel trasmettere i contenuti della teoria, quanto nell’aiutare le persone a superare queste resistenze cognitive innate. Solo riconoscendo e comprendendo i nostri bias cognitivi possiamo sviluppare gli strumenti intellettuali necessari per andare oltre le nostre intuizioni naturali e abbracciare una visione scientifica dell’origine e della biodiversità della Terra.

(Autrice: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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