Un contratto del 1363 citato da Amerigo Manesso in un interessante saggio sui diritti di pesca nel Sile, stabilisce che il vescovo di Treviso riceva ogni anno dagli affittuari lire 80 e “otto pescagioni buone e onorevoli” costituite ciascuna da dodici pesci, temoli o trote.
Una circostanza che dimostra chiaramente come il temolo (Tymallus thymallus) godesse di grande considerazione sin dall’antichità. Un prestigio che trova riscontro anche nei numerosi stemmi araldici dove la silhouette argentata del pesce fa bella mostra di sé: Germiny, Fontaine-de-Vaucluse in Francia e Aš in Repubblica Ceca sono alcuni esempi.
Appartenente alla famiglia dei Salmonidi e dunque parente stretto di trote, salmoni e salmerini, il temolo (in veneto tèmel) un tempo abbondava nel Piave, nel Sile e nel Livenza. Corpo affusolato, livrea grigio cenere con riflessi argentei e sfumature che vanno dal verde pallido all’azzurro, talvolta presenta una caratteristica puntinatura nera sui fianchi e sul capo. Fra i caratteri distintivi principali vi è la grande pinna dorsale che svetta come una sorta di vela e può essere utile a distinguere due ceppi di popolazione: il temolo padano a pinna blu e quello danubiano, proveniente da territori d’oltralpe in particolare dall’Austria, a pinna rossa.
Lungo fra i 30 e i 60 centimetri, peso compreso fra i due – tre etti e il chilogrammo, il temolo che nuota nei nostri fiumi predilige acque correnti o ferme, ma ben ossigenate con fondali ghiaiosi e abbondante vegetazione. Agile e scattante, di abitudini gregarie, ha una bocca piccola provvista di denti minuti. Presente nei tratti medio superiori dei fiumi, in quella che non a caso è definita la “zona del temolo” ama saltare fuori dall’acqua per intercettare zanzare, effimere e altri insetti volanti.
Il temolo padano, più di quello danubiano, risente dell’inquinamento. Fra gli altri fattori che minacciano la specie vi sono la frammentazione degli alvei fluviali, l’eccessiva pressione piscatoria e l’inquinamento genetico.
Nella Marca Trevigiana il temolo, per il quale si sollecitava un’adeguata protezione già alla fine del XIX secolo, si catturava tradizionalmente con attrezzi quali reti da posta (olandine) e tramagli (ré armà, redesìn, sorbèra, combina e strazzìn). Nell’alto Sile era diffuso il rissajo, un ombrello di rete lungo una quarantina di metri con maglie di venti millimetri che si manovrava da grosse imbarcazioni o a bordo delle zattere dei cavatori di ghiaia. Il rissajo, calato sul fondo con una zavorra di una ventina di chili, si chiudeva tirando una fune e si sollevava dopo aver raschiato il fondale alla ricerca delle prede. Oggi i pescatori sportivi tentano di insidiare il temolo con esche artificiali, a spinning, a mosca con la cosiddetta coda di topo; nei paesi del Nord Europa si usa trivellare la superficie ghiacciata dei laghi e dei fiumi per calarvi un’apposita lenza.
Preda ambita per la delicatezza delle carni che emanano profumo di timo o sentori di melone, nel 1877 il temolo si vendeva a una lira e settanta centesimi al chilo, più o meno lo stesso prezzo dell’anguilla e quasi il doppio di quello del luccio o della carpa.
Nella gastronomia tradizionale della Marca Trevigiana il temolo si prepara con le stesse ricette della trota: al forno, in graèla (gratella) cosparso di pangrattato, burro ed erbe aromatiche, alla mugnaia. Altrettanto apprezzati il risotto con filetti di temolo e la frittura, quest’ultima eseguita seguendo il prezioso consiglio di Maestro Martino da Como, cuoco alla corte degli Sforza e al Vaticano che, a metà del Quattrocento scriveva: “Il temolo è optimo pesce, et fallo como ti piace, che ad ogni modo è buono, ma il suo naturale è di frigiarlo”.
(Foto: Pesca Fiume).
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