Forse non è un campione di bellezza, ma lo scazzone (Cottus gobio) primeggia per coraggio e generosità. In primavera le femmine depongono le uova giallastre nel nido scavato sotto un sasso; a prendersene cura è un maschio che, pronto a reagire in caso di minaccia, sorveglia il nascondiglio segreto muovendo in continuazione le pinne ossigenando l’acqua circostante fino al momento della schiusa.
Lungo una quindicina di centimetri, testa voluminosa, occhi ravvicinati, dorso bruno grigiastro, addome chiaro e fianchi screziati da una caratteristica marezzatura scura, lo scazzone viene talvolta confuso con il ghiozzo di fiume e quello padano. Conosciuto nella Marca come marsón, marsión o marzión, è una specie caratteristica delle risorgive, dei torrenti e dei corsi d’acqua con acque fredde e pulite tanto da essere considerato dagli studiosi un prezioso indicatore biologico.
Imparentato con gli scorfani e per questa ragione conosciuto anche come “scorfano d’acqua dolce” è provvisto di spine acuminate ma non velenose sul capo e sulla pinna dorsale. La sua pelle, quasi del tutto priva di scaglie, è simile a quella delle anguille. Specie elusiva, si muove con cautela al crepuscolo o di notte alla ricerca di piccoli crostacei, vermi, uova di pesci e anfibi nascoste fra i ciottoli del fondale.
Minacciato principalmente dall’inquinamento, lo scazzone subisce anche le conseguenze di una massiccia immissione di trote per la pesca sportiva, delle alterazioni dell’alveo fluviale e dei sempre più frequenti periodi di siccità accompagnati da episodi di sconsiderata captazione delle acque.
Apprezzato per le carni delicate e saporite, il marsón rappresenta un pilastro della tradizione gastronomica trevigiana assieme all’anguilla, ai gamberi e alle lasche (marcàndole). Pescatori esperti provvedevano a rifornire le osterie alcune delle quali, vicino all’ingresso, ostentavano un recipiente d’acqua corrente gremito di scazzoni.
La pesca del marsón si faceva con reti a maglie fini o attrezzature specifiche (raffia e rafego) utili anche per la cattura dei ghiozzi e delle lamprede. Altrettanto caratteristico era l’impiego del piròn, la forchetta, alla quale venivano appiattiti i rebbi e affilate le punte. Fissata su un bastone si trasformava in una sorta di fiocina utile a infilzare i poveri pesciolini nascosti sotto i sassi: una tecnica padroneggiata anche dai ragazzi e che, per la sua semplicità, ha probabilmente ispirato il detto “come andare a marsón col piròn”. In Veneto erano famosi i marsóni del Piave, del Brenta e dell’Astico.
Cosparso di farina bianca o gialla, fritto nello strutto o nell’olio bollente, amalgamato con le uova per realizzare frittate strepitose, accompagnato da polenta e insalate freschissime il marsòn era talmente apprezzato da far passare in secondo piano luoghi comuni quali testa da marsòn (persona sciocca o cocciuta) o cascarci come un marsòn. Unica avvertenza fare attenzione all’ossicino della testa, talmente coriaceo da costituire un pericolo per i denti.
Coloro che ironizzano sull’aspetto goffo e sgraziato dello scazzone dovrebbero sapere che il marsón ha ascendenze aristocratiche e la sua silhouette orna gli stemmi araldici di diverse famiglie inglesi e francesi. Sull’arme degli Chabot, una nobile stirpe di duchi, conti e baroni d’oltralpe spicca l’inconfondibile sagoma di tre marsoni che nuotano controcorrente: non è un caso visto che, in francese, chabot significa proprio scazzone.
(Foto: Wikipedia).
#Qdpnews.it