Il Rewilding come Riparazione Morale? Riflessioni per la Giornata della Biodiversità

In occasione della Giornata Mondiale della Biodiversità che si celebra oggi 22 maggio, penso sia opportuno riflettere su una delle pratiche ecologiche più in voga degli ultimi anni: il rewilding. Questo approccio al restauro ecologico, che mira a ripristinare ecosistemi degradati riportandoli a uno stato più “naturale”, solleva interrogativi profondi non solo sul piano pratico, ma anche su quello etico e filosofico.

La moda del rewilding: cos’è e perché ne parliamo

Il rewilding, benché oggi sia diventato un termine alla moda nei media e nelle politiche ambientali, rappresenta in realtà una pratica che impegna gli ecologi da più di un secolo. Questa forma di restauro ecologico, che mira a riportare gli ecosistemi degradati verso condizioni più selvatiche e autosufficienti, non è affatto una novità nel campo scientifico. Da generazioni, gli ecologi lavorano alla reintroduzione di specie scomparse, alla rimozione delle barriere artificiali e al ripristino di processi naturali autosostenibili. Ciò che è nuovo è piuttosto l’attenzione pubblica che oggi riceve, come dimostrano iniziative come Rewilding Europe che stanno guadagnando crescente visibilità.

Ma dietro l’entusiasmo per queste iniziative emergono interrogativi fondamentali: possono il rewilding e più in generale le pratiche di restauro ecologico essere considerate autentiche forme di riparazione morale verso la natura? E qual è il significato etico di questo tentativo umano di “ricreare” ciò che è stato precedentemente degradato o distrutto?

Restauro ecologico come riparazione morale: un’illusione?

Nell’ambito della filosofia ambientalista, alcuni studiosi come Ben Almassi hanno sostenuto che il restauro ecologico dovrebbe essere concepito come una forma di “riparazione morale”, un modello per ricostruire le condizioni morali delle relazioni tra umani e natura. Questa visione si allinea con concetti di giustizia riparativa tradizionalmente applicati alle relazioni interumane.

Tuttavia, questa concezione presenta problemi significativi. Come evidenziato da critici del settore, l’idea di riparazione morale verso la natura potrebbe essere fondamentalmente fuorviante, se non addirittura dannosa.

I limiti concettuali del restauro come riparazione

Il problema centrale sta nel carattere stesso del processo di restauro: la sostituzione o creazione di nuove entità al posto di quelle preesistenti, nel tentativo di invertire ciò che è irreversibile. Quando un ecosistema viene danneggiato o una specie si estingue localmente, il danno è fatto. Ciò che viene ricreato attraverso il rewilding non è mai identico a ciò che è andato perduto.

A differenza della giustizia riparativa tra esseri umani, dove è possibile un vero dialogo e riconciliazione, la natura non può “accettare le nostre scuse” o riconoscere i nostri tentativi di riparazione. Gli organismi reintrodotti sono diversi da quelli che sono scomparsi, gli habitat ricreati sono inevitabilmente artificiali, portando l’impronta dell’intervento umano.

Una metafora pericolosa?

Nel tentativo di presentare il rewilding come riparazione morale, rischiamo di cadere in una forma sottile di arroganza antropocentrica. Paradossalmente, mentre professiamo umiltà e pentimento per i danni causati, contemporaneamente ci arroghiamo il diritto di “ricreare” la natura secondo i nostri parametri, assumendo un ruolo quasi divino.

Come suggerisce l’analisi del Libro di Giobbe nell’Antico Testamento citata dai critici di questa visione, nemmeno Dio può veramente restaurare e sostituire ciò che è stato distrutto nella sua identità originale. Giobbe riceve nuovi figli e nuove ricchezze, ma questi non sono quelli che ha perso. La sostituzione, per quanto generosa, non cancella la perdita originale.

Ha senso continuare con il rewilding?

Alla luce di queste critiche, dovremmo abbandonare i progetti di rewilding e restauro ecologico? Credo di no. Ciò che dobbiamo riconsiderare è la narrazione etica che li accompagna.

Il rewilding ha valore non come “espiazione morale” ma come strategia pragmatica per mitigare ulteriori danni agli ecosistemi, per creare nuove opportunità per la biodiversità, per sperimentare approcci di coesistenza tra attività umane e processi naturali e magari per educare realmente le comunità sull’importanza della conservazione della natura 

Verso una nuova etica del restauro

In questa Giornata della Biodiversità, potremmo ripensare il rewilding non come tentativo di “riparare” il passato, ma come impegno verso un futuro diverso. Non si tratta di cancellare le nostre colpe ecologiche, ma di imparare da esse.

Il vero valore morale del rewilding potrebbe risiedere proprio nella consapevolezza dei suoi limiti intrinseci: nel riconoscere che ciò che creiamo non è mai ciò che abbiamo distrutto, ma qualcosa di nuovo che merita rispetto e protezione proprio per la sua unicità.

Forse, anziché cercare di assumere il ruolo di “riparatori” della natura, dovremmo concentrarci sull’essere migliori partecipanti nei processi ecologici, riconoscendo che la vera riparazione morale inizia dal cambiamento del nostro rapporto con il mondo naturale, non dalla pretesa di poterlo ricreare a nostro piacimento. 

Basterebbe diventare consapevoli di quello che dobbiamo fare prima del rewilding. Oggi più che mai abbiamo gli strumenti per riuscirci.

La biodiversità che celebriamo il 22 maggio non è un museo da restaurare, ma un processo vivente in continua evoluzione di cui siamo parte, non padroni né salvatori. Ed è questa consapevolezza, più di qualsiasi progetto di rewilding, la vera riparazione morale di cui abbiamo bisogno.

(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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