La de-estinzione rappresenta una delle frontiere più pubblicizzate nel marketing delle biotecnologie, un territorio dove l’ambizione umana si intreccia con questioni etiche e pratiche di notevole complessità. Nel cuore di questo dibattito troviamo un paradosso interessante: mentre la tecnologia ci offre la possibilità di riportare in vita specie perdute, dobbiamo chiederci se questo potere rifletta una vera comprensione della natura o piuttosto una pericolosa illusione di controllo.
La scienza contemporanea si nutre indubbiamente di questo impeto poetico, di questo desiderio di superare i limiti che la natura ci impone. Tuttavia, questo slancio potrebbe spingerci ad agire senza una piena comprensione delle conseguenze. La spettacolarizzazione della de-estinzione rischia di trasformare un processo scientifico complesso in una forma di intrattenimento, dove il valore estetico delle specie diventa il criterio principale per decidere quali meritino una seconda possibilità.
Emerge così un nuovo tipo di sublime tecnologico: la tradizionale meraviglia per i misteri della natura viene sostituita da un senso di orgoglio per le capacità demiurgiche dell’essere umano. Organizzazioni come Revive and Restore sostengono che abbiamo un obbligo morale di riparare i danni causati alla biodiversità, vedendo nella de-estinzione uno shock culturale capace di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della conservazione.
Le implicazioni pratiche sollevano ulteriori interrogativi. Lo status legale ed ecologico degli organismi de-estinti resta un territorio inesplorato: come dovremmo classificare queste creature? Se l’estinzione comporta la rimozione dalle liste di protezione, la loro resurrezione dovrebbe garantire automaticamente lo status di specie protetta, considerando la loro iniziale fragilità e scarsità numerica. Non possiamo inoltre ignorare il rischio concreto di un traffico illegale di specie de-estinte, che potrebbe emergere come nuovo mercato nero della biodiversità.
Un aspetto particolarmente critico emerge quando consideriamo le nostre attuali lacune culturali e giuridiche. Faticando ancora a stabilire distinzioni fondamentali tra paesaggio e ambiente, o a definire lo status giuridico e le relative strategie gestionali degli ibridi tra popolazioni selvatiche e domestiche della stessa specie (vedi ibridi lupo-cane e/o generazioni di introgressi), ci troviamo impreparati ad affrontare le sfide ancora più complesse poste dalla de-estinzione.
Emerge inoltre una contraddizione economica e morale: mentre investiamo risorse significative nella ricerca sulla de-estinzione, continuiamo a essere il principale motore di estinzione delle specie esistenti. Risulterebbe certamente meno vantaggioso dal punto di vista economico concentrarsi sulle sfide contemporanee della biologia della conservazione, ma questa scelta rappresenterebbe un approccio più coerente e responsabile.
La de-estinzione ci pone quindi di fronte a un bivio: da un lato la possibilità di correggere gli errori del passato, dall’altro il rischio di commettere nuovi errori guidati da una hybris tecnologica non pienamente consapevole delle sue implicazioni. In questa narrativa, un elemento cruciale viene sistematicamente ignorato: tutto il dibattito ruota ossessivamente attorno alla nostra specie, alle nostre responsabilità e alle nostre colpe.
Se spostiamo lo sguardo verso le specie che vorremmo de-estinguere, applicando i principi ecologici specifici per ciascuna di esse, emerge una verità scomoda: nella maggior parte dei casi, i loro ecosistemi di riferimento semplicemente non esistono più. Quale senso avrebbe quindi la loro de-estinzione, se non quello di creare simulacri biologici sradicati dal loro contesto evolutivo? La risposta è tanto semplice quanto cinica: è il biomarketing, bellezza!
(Autore: Paola Peresin)
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