La storia è costellata di episodi cruenti nei quali la violenza è spesso un pretesto per giustificare sentimenti di odio e di vendetta. L’atroce supplizio subito da Marcantonio Bragadin a Famagosta non fa eccezione: sono trascorsi oltre quattro secoli, ma le terribili circostanze della sua morte continuano ad alimentare orrore e raccapriccio. Le cronache dell’epoca, seppure avvincenti, non sempre si rivelano del tutto attendibili. Una circostanza che tuttavia non mette assolutamente in discussione il coraggio e la fierezza con cui il governatore veneziano andò incontro al proprio tragico destino.
Nel Cinquecento l’isola di Cipro era un importante avamposto politico, economico e militare della Serenissima nel cuore del Mediterraneo, a una manciata di miglia nautiche dal litorale turco. L’isola, per la sua posizione, favoriva i traffici mercantili veneziani e solleticava gli appetiti dei sovrani ottomani per i quali era onorevole allargare i domini con i proventi delle imprese precedenti. Trascorso qualche decennio di provvisoria tranquillità, la situazione precipitò nell’estate del 1570, quando il Turco sbarcò a Cipro.
Indispettiti dalla fredda accoglienza dei ciprioti, dopo aver messo a ferro e fuoco Nicosia gli ottomani recapitarono a Famagosta la testa del luogotenente dell’isola, Andrea Dandolo. Il macabro trofeo, infilzato in una lancia (o forse riposto in una cesta), non intimorì né il governatore della piazzaforte, Marcantonio Bragadin, né il suo vice, il perugino Astorre Baglioni che fecero tumulare i resti del Dandolo in cattedrale con tutti gli onori. In quel frangente il veneziano, dinanzi all’arrogante ultimatum del condottiero ottomano, “si accese d’odio”.
Bragadin, nato il 21 aprile del 1523, era un uomo a dir poco risoluto. Rampollo di una famiglia patrizia originaria di Veglia, in Dalmazia, aveva maturato importanti esperienze nei ranghi dell’amministrazione civile e della flotta veneziane. Sebbene “forte e timorato di Dio” egli si rese protagonista di un episodio emblematico: indispettito da un subordinato, non esitò a disarmarlo e ucciderlo con la sua stessa spada. Baglioni dal canto suo era altrettanto valoroso e molto esperto nell’arte della guerra; infine, Famagosta poteva contare su un sistema di fortificazioni all’avanguardia, concepito nientemeno che dal leggendario architetto militare Michele Sammicheli.
Le truppe di Lala Mustafà Pascià, forti della netta superiorità numerica, strinsero la piazzaforte in una morsa d’acciaio ricorrendo a ogni stratagemma bellico possibile: incursioni, bombardamenti, scavo di cunicoli colmi d’esplosivo, reiterati tentativi di colmare il fossato attorno a Famagosta con legname, lana e terra per scavalcarne le mura. Il Bragadin organizzò una strenua difesa rincuorato dalla certezza che, ben presto, all’orizzonte si sarebbero stagliate le sagome delle galee veneziane inviate in soccorso. Ciò purtroppo non avvenne e dopo la dolorosa scelta di allontanare da Famagosta le bocche inutili, ovvero “femine, putti, vecchi e ciechi”, il Bragadin si arrese nella speranza che il Turco avrebbe mantenuto la promessa di risparmiare le vite degli assediati. Audace, ma disperato, nella sua ultima lettera alla moglie Bragadin dichiarò di sentirsi come “un giorno senza sole” e “un corpo senz’anima”.
In un primo momento le cose sembrarono filare lisce, ma d’improvviso qualcosa fece andare il condottiero turco su tutte le furie. Forse egli scoprì che il Bragadin aveva ucciso i prigionieri ottomani, altre voci parlano del rifiuto da parte del veneziano di cedere al Pascià, quale ostaggio, un avvenente giovinetto. Fatto sta che mentre il Baglioni insieme ad altri venne decapitato seduta stante, per Marcantonio Bragadin iniziò l’atroce supplizio. Dopo avergli mozzato entrambe le orecchie e aver simulato ripetutamente il taglio della testa, Bragadin venne malmenato e coperto di sputi. L’indomito veneziano, rifiutando di convertirsi all’Islam, reagì alternando preghiere e imprecazioni. “Dov’è il tuo Cristo che dovrebbe liberarti?” lo scherniva Lala Mustafà. E il Bragadin di rimando: “Can, bruto becho fottuo”. Fu allora che probabilmente i giannizzeri gli spezzarono entrambe le braccia.
Inferocito dall’ostinazione del nemico, Lala Pascià lo fece ingabbiare sotto il sole cocente, poi lo costrinse a vagare con un carico di sassi e di pietre, la testa devastata dalle ferite in suppurazione. Quindi ne ordinò il sollevamento sull’albero maestro di un’imbarcazione per deriderlo: “Non vedi che stanno arrivando gli aiuti?”. Iniziò allora la fase finale e più crudele della tortura. Legato al palo della bandiera nella piazza centrale di Famagosta, il Bragadin venne scorticato vivo. Il carnefice partì dalla schiena, incise le spalle e le braccia; quando la lama giunse all’ombelico il veneziano finalmente spirò. Il suo corpo, smembrato in quattro parti, assieme alle viscere, al cuore e alla testa, venne esposto in vari luoghi della piazzaforte; la pelle riempita di paglia, rivestita con gli abiti della vittima fu caricata a dorso di bue. Scortato dai soldati turchi, il raccapricciante simulacro subì un’ulteriore umiliazione: un uomo lo riparava dal sole con un ombrello, scimmiottando un antico vezzo del Bragadin.
Dopo essere stata ostentata in Siria, Cilicia e in altre province marittime la pelle di Marcantonio Bragadin fu riposta in una cassetta di legno nell’Arsenale di Costantinopoli. Girolamo Palidoro, marinaio veronese, riuscì a trafugarla alcuni anni dopo, indossandola sotto i propri abiti per poi spedirla a Venezia. L’impresa riuscì ma scoperto dagli ottomani, il Palidoro fu brutalmente malmenato sino a “diventare eunuco”; il Doge riconobbe l’importanza del suo gesto concedendogli un sussidio mensile di cinque ducati.
Collocata inizialmente a S. Gregorio, dal 1576 la pelle del Bragadin si trova nella chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Una cronaca dell’epoca la descrive così: “piegata in ampiezza d’un foglio di carta, salda, e palpabile come fosse un pannolino; vi si vedevano i peli del petto ancora attaccati, et alla mano destra, che era scorticata, le dita non compiute di scorticare con l’unghie che sembravano ancora vive”.
Nella piazza di Famagosta, dove Marcantonio Bragadin fu scorticato vivo, ancora oggi prospera un sicomoro monumentale che la tradizione vuole sia stato piantato nel 1299: se così fosse l’antico albero sarebbe l’ultimo testimone vivente di una vicenda nella quale audacia e crudeltà, temerarietà e malvagità giacciono dolorosamente avviluppate sotto la silente ombra di quelle fronde secolari.
(Foto: Wikipedia).
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