È ormai diventato uno spettacolo comune nei nostri cieli e nei nostri campi: un uccello dall’aspetto inconfondibile con corpo bianco, testa nera e un lungo becco ricurvo che si alza in volo sopra le risaie o si posa nei campi arati della Pianura Padana alla ricerca di cibo. È l’ibis sacro (Threskiornis aethiopicus), una specie che racconta una storia sorprendente di viaggi, adattamenti e sfide ecologiche.
L’ibis sacro ha un posto speciale nella storia dell’umanità. Nell’antico Egitto era venerato come incarnazione di Thoth, il dio della saggezza e della scrittura. La sua presenza era così diffusa che sono state ritrovate oltre 1,5 milioni di mummie di questi uccelli nelle catacombe di Saqqara, e si stima che fossero 4 milioni quelle presenti nelle catacombe di Tuna el-Gebel. Paradossalmente, mentre in Egitto la specie si è estinta nel corso del XIX secolo, oggi l’ibis sacro prospera in varie parti d’Europa, inclusa l’Italia dove non è mai stato presente naturalmente.
La presenza dell’ibis sacro nel nostro paese ha origini relativamente recenti. Le prime segnalazioni di individui fuggiti dalla cattività risalgono al XIX secolo, ma è solo dalla fine degli anni ’90 che la specie ha iniziato a stabilirsi e riprodursi con successo in natura. Gli ibis che oggi popolano l’Italia provengono sia da fughe da zoo e parchi faunistici locali, sia dalla dispersione di esemplari provenienti dalla popolazione francese, dove la specie si è insediata con successo negli anni ’90.
I numeri parlano chiaro: da poche decine di coppie all’inizio degli anni 2000, oggi si stima che la popolazione italiana conti non meno di 980-1.000 coppie riproduttive e circa 10.000 individui totali. La specie ha mostrato una notevole capacità di adattamento, colonizzando principalmente le aree della Pianura Padana centro-occidentale, con una progressiva espansione lungo le coste adriatica e tirrenica.
L’ibis sacro è un uccello opportunista con una dieta molto varia. Si nutre principalmente di invertebrati (oltre l’80% della dieta), ma può consumare anche piccoli vertebrati come anfibi e pesci. Proprio questa versatilità alimentare, unita alla capacità di adattarsi a diversi ambienti, dalla risaia alle zone umide naturali, ha contribuito al suo successo.
La sua presenza solleva preoccupazioni per la conservazione della biodiversità. In Francia, sono stati documentati casi di predazione su uova e pulcini di altre specie di uccelli, in particolare quelle che nidificano in colonia. In Italia, sebbene non siano stati ancora documentati impatti significativi sulla fauna locale, la rapida espansione della specie richiede un attento monitoraggio.
Nel 2016, l’Unione Europea ha inserito l’ibis sacro nell’elenco delle specie esotiche invasive di rilevanza unionale, riconoscendo la necessità di gestire e contenere le sue popolazioni. È un esempio emblematico di come una specie, pur affascinante e storicamente significativa, possa diventare problematica quando viene introdotta in ecosistemi dove non si è evoluta naturalmente.
La gestione dell’ibis sacro rappresenta una sfida complessa. Da un lato, c’è la necessità di tutelare gli ecosistemi locali e le specie native; dall’altro, bisogna considerare che questi uccelli sono ormai parte del nostro paesaggio e hanno sviluppato popolazioni significative. Le strategie di gestione devono quindi essere attentamente pianificate e basate su solide evidenze scientifiche.
L’Italia ha recentemente adottato un piano nazionale di gestione che prevede diverse strategie di intervento, differenziate in base alle aree geografiche e alla densità delle popolazioni. L’obiettivo è quello di contenere l’espansione della specie e minimizzare i suoi potenziali impatti negativi sugli ecosistemi locali.
La storia dell’ibis sacro in Italia ci ricorda come le azioni umane possano avere conseguenze inaspettate e durature sugli ecosistemi. Allo stesso tempo, ci offre l’opportunità di riflettere sul delicato equilibrio tra la conservazione della biodiversità e la gestione delle specie non native che ormai fanno parte del nostro ambiente.
(Autrice: Paola Peresin)
(Foto: Wikipedia)
(Articolo di proprietà di Dplay Srl)
#Qdpnews.it riproduzione riservata