Oggi San Servolo è una pacifica isola veneziana che dista solo pochi minuti di vaporetto dalla caotica Piazza San Marco. Immersa nel verde, ospita un albergo, la Venice International University e l’Accademia delle Belle Arti. Ma quel contesto non è sempre stato così piacevole: non prima del 13 maggio 1978, quando quell’isola, stretta e senza vie di fuga, ospitava il Manicomio di Venezia.
In seguito alla legge 180, del 13 maggio 1978, comunemente detta legge Basaglia, la decisione di chiudere tutti i manicomi d’Italia, quello di San Servolo fu il primo, e smise di operare il 13 agosto, esattamente tre mesi dopo.
Ma la chiusura fu solamente amministrativa: i circa 270 pazienti ancora presenti vennero spostati quasi tutti a San Clemente (chiuso nel 1992) o a Marocco di Mogliano Veneto, la particolarità di questa chiusura fu che Lucio Strumendo, all’epoca presidente della Provincia di Venezia, volle mantenere il servizio di portineria per cui nessuno poté attraccare senza un permesso.
Questa operazione permise di salvare tutta la parte ospedaliera e archivistica, cosa che in molti ospedali psichiatrici, totalmente abbandonati dopo la chiusura, non avvenne. A differenza degli altri San Servolo non venne saccheggiato mantenendo una testimonianza storica oggi fondamentale.
Lo stesso presidente della Provincia l’anno successivo instituì la Fondazione “San Servolo” un istituto per le ricerche e gli studi sull’emarginazione sociale che aveva come scopo la conservazione e valorizzazione della parte archivistica e ospedaliera. Dal 1995 iniziarono le operazioni di restauro di tutti gli edifici dell’isola che terminarono nel 2004.
Ospedali psichiatrici: cose da nobili
San Servolo nacque come ospedale militare nel 1716, ma – come testimoniato all’interno del museo dell’isola – nel 1725 al suo interno venne ricoverato “l’illustrissimo signor Lorenzo Stefani“, che fu di fatto il primo “pazzo” ospitato a Venezia. Contrariamente a quanto si possa pensare, l’arrivo a San Servolo non era misura imposta ma anzi un privilegio. Stefani in effetti, al contrario di molti altri, poté permettersi il pagamento della retta.
Per comprendere questo passaggio bisogna considerare che non c’era nessuna divisione tra coloro che venivano considerati “pazzi” e quelli che effettivamente erano criminali: entrambe le categorie venivano rinchiuse in carcere (così, si potrebbe pensare, chi fosse presunto pazzo diventava criminale e chi fosse criminale diventava irrimediabilmente pazzo). Solamente chi riusciva a permettersi il pagamento di una retta veniva trasferito nelle strutture dedicate, per essere curato con quelle che erano le conoscenze di allora.
I “pazzi” stavano in prigione
“Nel 1700 quelli considerati pazzi stavano in prigione – spiega Luigi Armiato responsabile del museo e dell’archivio storico di San Servolo – qui a Venezia erano rinchiusi nella “Fusta”, una nave disalberata ancorata nel bacino. Nei primi vent’anni di attività nel manicomio vennero ricoverate solamente cinque persone compreso Stefani. Anche gli altri quattro erano chiaramente nobili, o certamente molto benestanti”.
Più tardi, nelle carceri, coloro che erano considerati pazzi e quelli che erano stati giudicati criminali vennero divisi, perché la Repubblica di Venezia si piegò a Napoleone, che già predicava questa ripartizione.
“A quel punto svuotarono la Fusta dai considerati pazzi e li trasferirono a San Servolo” dando di fatto inizio alla storia dell’isola come manicomio pubblico.
Nel 1804 vennero spostate dalla nave anche le donne pazze ma la loro permanenza a San Servolo durò solamente 30 anni “poi le spostano all’interno del reparto manicomiale dell’ospedale civile – precisa Armiato – fino all’apertura nel 1873 di San Clemente, un’isola di fronte a dove ci troviamo, che fu costruita appositamente come manicomio femminile”.
Questa divisione continuò fino al 1930 quando entrambi i manicomi iniziarono ad ospitare sia uomini che donne.
Le terapie nei manicomi
Tra le terapie più utilizzate nei manicomi c’erano anche quelle convulsivanti. Gli anni ’30 furono un periodo in cui queste terapie vennero usate largamente in quanto un medico Ungherese Ladislas Meduna sostenne che l’epilessia era antitetica alla schizofrenia e che queste crisi convulsive liberavano delle sostanze sconosciute che riequilibravano il cervello.
“Per questo motivi iniziarono a fare anche la malarioterapia – prosegue Armiato – infettando con del sangue malarico i pazienti causando delle convulsioni, oppure usavano dei farmaci convulsivanti provocando un senso di morte”.
Ma fu Cerletti, medico coneglianese che lavorava a Roma, ispirato a quanto visto in un macello in cui prima di uccidere i maiali veniva data loro una scossa per non farli urlare pensò di utilizzare l’elettricità per indurre le crisi epilettiche.
Il primo esperimento avvenne nel 1938 a Roma, il paziente, un barbone schizofrenico andò subito in coma e al suo risveglio confessò di aver dormito. Cerletti pensò dunque di aver trovato la cura e per questo motivo la pratica aumento negli anni Cinquanta: a San Servolo, secondo le cartelle cliniche conservate, furono quasi 60mila i pazienti trattati con l’elettroshock. Dati comunque sottostimati rispetto a quanto avvenne veramente.
L’importanza storica di San Servolo
Essendo un ospedale molto antico, San Servolo attraversò tutte le fasi della psichiatria fino al 1978. Tra le sue mura si trova tutta l’evoluzione della medicina, la storia delle istituzioni e tutte le fasi politiche della città lagunare.
Durante la Seconda guerra mondiale i nazisti fecero irruzione a San Servolo deportando sei ebrei che morirono poi ad Auschwitz.
Oggi il museo raccoglie delle testimonianze fondamentali di come venivano curate le malattie mentali fino a 45 anni fa quando la legge Basaglia sancì la chiusura dei manicomi riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici.
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