Massimo Montanari, studioso di storia dell’alimentazione, afferma che il cibo è cultura: quando si produce, si crea, si prepara, si consuma e si sceglie. La cultura del cibo non è statica, al contrario si evolve sollecitata dalla curiosità e dal desiderio di “farsi contagiare” da tecniche e alimenti diversi. Un esempio: il più iconico fra i piatti italiani, gli spaghetti al pomodoro, è il risultato del fortunato incontro fra la cultura mediterranea (la pasta), quella del Nuovo Mondo (il pomodoro).
L’arte culinaria, secondo la prospettiva dalla quale si osserva, può unire ma anche dividere. Dalla legittima rivendicazione della propria identità al miope campanilismo il passo è breve: il rischio è quello di svalutare o distorcere la storia di un grande piatto venuto alla luce in un contesto privo di rigide barriere geografiche o culturali come lo sono le città di mare o le comunità fiorite lungo le più importanti vie di comunicazione.
È il caso della busara o buzara (con l’accento sulla u), un classico della cucina marinara dell’Alto Adriatico e sulla cui paternità Istria, Dalmazia e Trieste si contendono il primato seguiti a ruota da Venezia, luogo di approdo della ricetta.
Tutto sembra iniziare a Fiume (oggi Rijeka) talmente famosa per la qualità del pescato da spingere l’attore Giovanni Papadopoli (1815-1899) a benedirne gli scampi ancor prima delle donne. Se ciò non è sufficiente a dimostrare che la busara è istriana, è certo che gli scampi alla busara divennero ben presto patrimonio di tutti coloro, slavi, italiani e austriaci, che dimoravano lungo le coste alto adriatiche.
Nemmeno la linguistica ci aiuta a risolvere l’enigma. Secondo alcuni tutto è da ricondurre a una grossa pentola di coccio o di ferro, la buzara, utilizzata dai pescatori dalmati e croati per cucinarsi i pasti a bordo. Pedrag Matvejević, autore del bellissimo “Breviario mediterraneo”, opta per il buzzo inteso come ventre, appagato dai sapori di un piatto delizioso. Una terza ipotesi fa riferimento alla consuetudine di cucinare gli scarti del pesce con abbondante vino e pomodoro così da celare al palato l’umile origine degli ingredienti: una ricetta all’insegna della bugia, in dialetto triestino busia. Un’ultima congettura propende infine per assimilare la busara con il generico termine di zuppa, un piatto dalle infinite varianti.
A questo punto, messe da parte faziosità e controversie, non resta che dedicarci alla preparazione degli scampi alla busara. La ricetta è tratta dagli archivi dell’Accademia Italiana della Cucina, istituzione culturale della Repubblica Italiana che non fa mistero delle origini istriane e dalmate del piatto.
Per quattro persone servono sedici scampi, una cipolla, due spicchi d’aglio, una tazza di pomodori pelati, olio d’oliva, mezzo bicchiere di vino bianco, sale e pepe nero. Incidere il dorso degli scampi e adagiarli sul soffritto di olio, aglio e cipolla. Salare e coprire. Dopo qualche istante togliere i crostacei e sfumare con il vino bianco. Unire i pomodori, regolare di sale e cuocere una ventina di minuti. Rimettere gli scampi e proseguire la cottura, con il coperchio, per qualche minuto. Cospargere il piatto con pepe fresco di macinatura.
Alcune varianti prevedono l’aggiunta di pangrattato ed erbe aromatiche come prezzemolo, timo o rosmarino. Allo stesso modo si possono cucinare seppie, calamari e cozze.
Gustati in purezza o utilizzati per condire gli spaghetti, gli scampi alla busara (Škampi na Buzaru in croato) metteranno d’accordo tutti gli abitanti delle sponde adriatiche. Del resto, sosteneva Matvejević: “L’Atlantico o il Pacifico sono i mari delle distanze, il Mediterraneo è il mare della vicinanza, l’Adriatico è il mare dell’intimità”.
(Foto: Wikipedia).
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