Un pesce dalla sagoma slanciata e possente staziona sotto la cascatella. Il muso rivolto contro corrente è provvisto di due paia di barbigli che utilizza, di tanto in tanto, per grufolare fra i sassi come un porcellino. Il dorso è scuro, i fianchi verdastri. Le pinne, ai margini, presentano delle marcate sfumature arancio-rossastre. Improvvisamente, con un guizzo, il barbo supera il salto d’acqua per posizionarsi in una pozza vicina al pilone del ponte.
Al genere Barbus, famiglia dei Ciprinidi, appartengono diverse specie. In Italia le più comuni sono: il barbo italico o padano (Barbus plebejus), tipico dell’areale veneto e del quale ci occupiamo oggi; il barbo tiberino (B. tyberinus) presente in Toscana, Umbria e Lazio, il barbo canino (B. caninus o meridionalis) che nuota in acque piemontesi, liguri e toscane; infine il barbo europeo (B. barbus) sovente confuso con l’italico ma di maggiori dimensioni e giunto in Italia da altre regioni europee. Occasionalmente vengono pescati esemplari ibridi risultato dell’unione fra specie diverse.
Attivo e gregario nei periodi più caldi, nei mesi freddi il barbo viene sopraffatto da un torpore che lo induce a rifugiarsi fra le radici sommerse in acque profonde e tranquille. Per via degli occhi di piccole dimensioni tende a evitare l’eccessiva esposizione al sole e preferisce pascolare pigramente nei tratti di fiume più in ombra in compagnia di alborelle, vaironi e cavedani. La sua alimentazione è costituita da invertebrati e insetti che scova sul fondo, più raramente da piccoli pesci. Se un barbo padano adulto può superare i 60 cm. e pesare fino a tre chilogrammi, quello europeo sfiora il metro e gli otto chili.
Sebbene piuttosto diffuso, il barbo italico subisce le conseguenze di infezioni, attacchi di sanguisughe e alterazioni dell’habitat naturale: l’indiscriminata estrazione di ghiaia da fiumi e laghi rende inospitale la cosiddetta “zona del barbo” provocandone la progressiva rarefazione. La specie padana tende inoltre a soccombere nella competizione con quella europea, più vigorosa e combattiva.
Preda un tempo piuttosto apprezzata dai pescatori professionisti dei grandi laghi settentrionali, il barbo è ancora molto ricercato dagli sportivi per la fiera ed energica reazione con la quale tenta di sottrarsi alla cattura. Nella Marca per la pesca del barb (anche bàrbolo o pésse barbòn)si utilizzavano attrezzi come i bertovelli o lo schirale – schìral da batua – una rete di raccolta fissata a una pertica e manovrata sul fondo. I più esperti cercavano di pescarlo con le mani, tastando il fondo sassoso e sfidando il morso delle bisce d’acqua (bìssa ranera o rospèr).
Pesce dalle carni discrete ma eccessivamente liscose, il barbo incontrava maggior favore in passato quando la fame rendeva tutti meno sofistici. Se gli esemplari più piccoli finivano nella frittura, quelli più grossi si cucinavano in tecia con vino, spezie ed erbe aromatiche utili per esaltarne il sapore o contrastare sentori sgradevoli. Le uova, deposte in estate sulle pietre, sono tossiche e gli antichi se ne servivano per indurre il vomito.
Un’ultima curiosità: il barbo (o barbio) è uno dei pesci più utilizzati nelle insegne araldiche di comunità o famiglie legate all’ambiente fluviale. Un esempio è lo stemma del Comune di Bard, in Valle d’Aosta, nel quale campeggiano due barbi d’oro addossati l’uno all’altro
(Foto: web).
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