Riflessioni semiserie sulla “scienza” giuridica in mezzo alle montagne, dove le sentenze maturano come le mele
“Con quarant’anni di magistratura alle spalle, le confesso che ancora oggi fatico a definire cos’è veramente il diritto.” Queste parole, pronunciate con disarmante franchezza dalla signora che mi siede accanto mi gelano più dell’aria notturna delle vette alpine. La conversazione che segue, tra un susseguirsi di calici e piatti variopinti, si rivela tanto spaventevole quanto rivelatrice. Il diritto, quella costruzione monumentale che dovrebbe regolare le nostre vite con precisione “matematica”, si sgretola sotto i colpi delle sue stesse contraddizioni, narrate da chi l’ha amministrato per quattro decenni.
L’alcol scioglie la lingua e le certezze. Emergono storie di sentenze fondate sul nulla, interpretazioni contorte come i sentieri di montagna, decisioni arbitrarie mascherate da logica giuridica. Una serata insostenibilmente pesante che svela l’inconsistenza di ciò che dovrebbe essere solido come le Dolomiti circostanti.
L’occasione era troppo ghiotta per non prendere appunti. Eccoli
Definire l’indefinibile
Se cercassimo sul dizionario dei paradossi il termine “diritto”, troveremmo probabilmente questa definizione: “Sistema di regole precise basate su concetti vaghi.”
Il diritto vorrebbe essere scientifico, ovviamente senza avere la minima idea di cosa significhi il termine. Quando mai si parla di numeri, misurazione e replicabilità nel diritto? Mai. Eppure i giuristi si atteggiano a scienziati sociali con la stessa convinzione di un astrologo che si presenta come astronomo.
Alla sua base troviamo termini come “ragionevole”, “adeguato”, “proporzionato”, “eccessivo” – parole che significano tutto e niente, a seconda di chi le interpreta. È come costruire un castello medievale su una risaia: imponente da lontano, ma affondato in un terreno instabile che lo fa inclinare un po’ di più ogni secolo.
Il giurista vi parlerà con sicurezza di diritto privato e pubblico, costituzionale e amministrativo, sostanziale e procedurale. Vi elencherà fonti primarie e secondarie, norme imperative e dispositive. Una tassonomia che farebbe impallidire Linneo. Peccato che poi, davanti alla domanda “ma cos’è esattamente il diritto?”, il giurista assuma quell’espressione spaesata del gatto quando lo chiamate per nome e lui finge di non sentirvi.
La metodologia: questo fantasma
Il metodo scientifico è quella cosa fastidiosa che gli studiosi di diritto preferiscono evitare. Mentre gli scienziati si affannano a spiegare meticolosamente ogni passaggio delle loro ricerche, il giurista procede per illuminazioni mistiche.
“Ho interpretato i testi”, vi dirà con un’aria di sufficienza, come se avesse appena decifrato un messaggio alieno. Se chiedete dettagli sul metodo, il giurista guarderà l’orologio e si ricorderà improvvisamente di un appuntamento urgente.
Un fisico vi spiegherà con precisione millimetrica come ha misurato la velocità di una particella. Un giurista vi spiegherà, con altrettanta sicurezza ma decisamente meno precisione, perché una sentenza di cinquanta pagine significa esattamente l’opposto di quello che sembra dire. E lo dice con orgoglio!
L’universo parallelo del diritto ambientale
Se il diritto in generale è complicato, il diritto ambientale è come un cubo di Rubik a dodici dimensioni maneggiato con i guantoni da boxe. In questo ambito, tutto si sovrappone, si interseca e si contraddice con gioiosa anarchia.
Un solo evento può innescare contemporaneamente procedimenti in cinque giurisdizioni diverse, con dieci normative applicabili e venti possibili interpretazioni. È come se, cercando di risolvere un problema, si generassero spontaneamente altri dieci problemi, in una sorta di idra legale che prolifera alimentandosi di cavilli.
E quando il diritto ambientale incontra le questioni internazionali, assistiamo a quel raro fenomeno che è il caos perfettamente organizzato: delegazioni di esperti che discutono per ore se un particolare verbo al condizionale in un trattato sia vincolante o meno, mentre fuori dalla finestra della sala conferenze le foreste continuano a bruciare.
La fauna selvatica sotto processo
Quando il diritto si applica agli animali (perché è proprio per questo che ci troviamo qui!) raggiungiamo vette di surrealismo che nemmeno Salvador Dalí avrebbe immaginato. Prendiamo il caso degli orsi in una regione montana qualsiasi. Un tribunale può emettere sentenze basate sulla premessa che “tutti sanno che qui gli orsi sono troppi.”
Una meraviglia di precisione giuridica. “Tutti” chi, esattamente? I biologi? I turisti? I falegnami? Gli orsi stessi? E “qui” dove? Nel bosco? Nella regione? Nel continente? E “troppi” rispetto a quale parametro scientifico? A quale consistenza o densità si riferisce il magistrato? Intende la capacità portante dell’ecosistema? La vocazionalità? Il numero di incontri con esseri umani? Il gusto personale del giudice per gli animali pelosi?
È come se un medico diagnosticasse “un po’ troppa malattia” prescrivendo “qualche medicina da prendere quando capita”. Eppure, su queste fondamenta di sabbia si costruiscono imponenti cattedrali giuridiche, con conseguenze molto concrete per territori, animali e comunità.
Il caso degli ibridi è ancora più delizioso. In alcune giurisdizioni, gli animali ibridi (come gli incroci tra lupi e cani) devono essere sia protetti che eliminati. Devono essere protetti in quanto appartenenti a una specie tutelata, ma devono essere rimossi per preservare la biodiversità. È il gatto di Schrödinger in versione legale: l’animale è contemporaneamente da salvare e da sopprimere, fino a sentenza.
Quando la lettera uccide lo spirito
Il formalismo giuridico raggiunge il suo apice quando la forma diventa più importante della sostanza. Pensiamo alla vicenda di quel ricorso respinto perché presentato con un carattere tipografico diverso da quello prescritto. O a quella causa vinta grazie a una virgola mal posizionata in un contratto milionario.
In quale altro campo dello scibile umano un errore di battitura può determinare il destino di persone, animali o ecosistemi? Solo nel diritto, dove a volte sembra che lo scopo principale non sia la giustizia ma un elaborato gioco dell’oca per iniziati.
La legge come arte dell’approssimazione precisa
Il paradosso supremo del diritto è che vorrebbe presentarsi come una scienza ma opera con l’approssimazione della poesia. Usa un linguaggio tecnico per esprimere concetti vaghi, cerca la certezza in un mondo di probabilità sconosciute a chi discute, insegue la giustizia senza mai definirla con precisione.
È come se un matematico sostenesse che 2+2=4, più o meno, a seconda delle circostanze, dell’interpretazione prevalente e dell’orientamento della giurisprudenza recente.
La saggezza dell’umiltà
Nonostante i suoi paradossi, o forse proprio grazie ad essi, il diritto ci insegna una lezione fondamentale: la complessità del mondo reale sfugge a qualsiasi tentativo di ingabbiarla in formule rigide.
I migliori giuristi sono quelli che riconoscono che il diritto è solo uno strumento tra tanti per affrontare i problemi del mondo. Come un martello: utilissimo per piantare chiodi, decisamente meno efficace per riparare un vetro rotto.
Accettare i limiti del diritto non significa sminuirne l’importanza, ma riconoscere che per risolvere problemi complessi servono approcci multidisciplinari. A volte la migliore soluzione legale è ammettere che non esiste una soluzione puramente legale.
E in questa consapevolezza dei propri limiti, paradossalmente, il diritto diventa un po’ meno insostenibilmente pesante e un po’ più saggiamente utile. Come quel convitato a cena che, dopo aver parlato troppo, finalmente tace e si mette ad ascoltare.
(Autore: Paola Peresin)
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