Modi di dire: non avere voce in capitolo

monaci cistercensi che, a metà del 1100, subentrarono ai benedettini nell’abbazia follinese di Santa Maria di Sanavalle godettero del sostegno decisivo di Sofia da Camino la quale intuì l’importanza di annoverare fra i propri alleati i tenaci uomini di Dio con l’abito bianco e nero. Famosi per la loro intraprendenza imprenditoriale oltre che per il rigore spirituale, i seguaci di Bernardo di Chiaravalle avviarono la sistematica bonifica della Valle di Mareno, gettarono le basi per un’agricoltura razionale e crearono le premesse per la nascita di floride attività manifatturiere legate alla provvidenziale ricchezza, nel territorio, di rogge e corsi d’acqua. Nel volgere di poco l’abbazia divenne capofila di chiese, conventi e cappelle, di un ospedale per pellegrini e di diverse tenute agricole, le granze, che punteggiavano la Marca Trevigiana, il bellunese e la laguna veneta.

L’abbazia, divenuta uno strategico centro di potere, crebbe di pari passo con le fortune della nobile stirpe caminese. Nel volgere di poco furono edificati il chiostro, la basilica e altre pertinenze che ancora oggi si possono ammirare nonostante Santa Maria abbia attraversato parecchi momenti bui: il tramonto dei Da Camino, le soppressioni napoleoniche, la Grande Guerra solo per citarne alcuni. Chiusa una parentesi camaldolese iniziata nel 1575 e terminata nel 1771, dal 1915 l’abbazia è stata affidata ai Servi di Maria, custodi di un luogo carico di storia e spiritualità.

Fulcro dell’abbazia è senza dubbio il chiostro, adiacente alla basilica, dal quale prendono forma gli spazi più caratteristici del cenobio: il chiostrino dell’Abate, il refettorio, il parlatorio, la biblioteca e la sala del capitolo. Quest’ultima, dopo la chiesa, è il luogo di maggiore importanza dell’abbazia. Qui, ogni giorno i monaci si radunavano per ascoltare la lettura di un capitolo della Regola monastica e per assumere le decisioni più importanti; e soltanto in questa sala era consentita la conversazione.

Nel caso di Follina, luogo nel quale l’intreccio fra vicende religiose, politiche ed economiche era più che mai evidente, la sala capitolare era il cuore pulsante non solo della comunità monastica, ma di una considerevole porzione di Veneto. L’acquisto di nuovi terreni, l’ammissione dei novizi, l’edificazione di un tempio, l’elezione o la deposizione dell’abatesi discutevano in questa sala. Qui si ricordavano i confratelli defunti, si confessavano i peccati, si denunciavano i trasgressori e si infliggevano le punizioni che spaziavano dal temporaneo divieto di frequentare il refettorio alla definitiva cacciata dall’abbazia. 

Nella sala capitolare non ci si sedeva a caso, ma secondo un chiaro ordine gerarchico; all’abate, ovviamente, era riservata una posizione ben precisa, come quella di un direttore d’orchestra e il rango dei partecipanti si poteva intuire anche da alcuni dettagli in apparenza insignificanti quali a esempio le guance rasate o nascoste da folte barbe.

Accanto ai monaci, nella sala capitolare, prendevano posto anche i conversi, fratelli laici ai quali erano devoluti compiti manuali legati all’agricoltura, all’artigianato e che comportavano frequenti contatti con il mondo esterno. Sebbene perfettamente integrati nella comunità monastica e tenuti in grande considerazione per il loro ruolo prezioso, i conversi, come i novizi, potevano solo ascoltare gli argomenti dibattuti al cospetto dell’abate, senza alcuna possibilità di intervenire nelle decisioni. Da qui la locuzione “non avere voce in capitolo”, nel senso di non avere il privilegio di esprimere la propria opinione per sostenere o avversare una decisione. 

Una circostanza che apparentemente sembra collidere l’esperienza democratica ante litteramdei capitoli monastici medievali, ma che in realtà è perfettamente in linea con il pensiero e la volontà dei padri fondatori. 

Immaginando la solenne atmosfera che regnava nelle sale capitolari dei conventi torna alla mente la severa austerità con la quale Jorge da Burgos, il monaco cieco reso celebre da Umberto Eco nel capolavoro “Il nome della rosa”, interrompe l’ilarità dei confratelli. Privare della parola i novizi, probabilmente, significava accrescere l’autorevolezza delle riunioni capitolari ponendole al riparo dalle facezie o dalle ingenuità tipiche dei giovani: un concetto sintetizzato da Iacopo Badoer, intellettuale veneziano vissuto nel Seicento e autore di una frase che si attaglia perfettamente a coloro che, non sempre, meritano di avere voce in capitolo: “Un bel tacer mai scritto fu”.     

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto: Qdpnews.it)
(Articolo e foto di proprietà di Dplay Srl)
#Qdpnews.it riproduzione riservata

Total
0
Shares
Related Posts