Siamo probabilmente la specie più “riuscita” della Terra: abbiamo conquistato ogni angolo del pianeta, la nostra popolazione è esplosa e abbiamo creato tecnologie incredibili. Eppure, questo straordinario successo evolutivo potrebbe rivelarsi un problema. Viviamo nell’Antropocene, l’era geologica in cui gli esseri umani sono diventati la forza dominante del pianeta.
A differenza di altre specie, gli umani hanno sviluppato un’evoluzione culturale che si accumula nel tempo. Ogni generazione costruisce sulle conoscenze precedenti, permettendoci di trasformare radicalmente l’ambiente. Ma questo ha innescato feedback incontrollabili: più popolazione porta più tecnologia, che spinge verso maggior consumo di risorse, in un ciclo difficile da fermare.
Siamo anche particolari nella capacità di cooperare su larga scala, dalle tribù alle organizzazioni globali. Ma c’è un aspetto curioso: mentre riusciamo bene a cooperare localmente, fatichiamo su scala planetaria. È come se fossimo programmati per lavorare insieme contro un nemico esterno, ma su un pianeta unico, il nemico chi sarebbe?
I sistemi umani si diffondono attraverso la storia come virus. L’agricoltura, gli stati, l’industrializzazione: sistemi che si sono espansi rapidamente perché generavano vantaggi immediati. Quelli con “feedback positivi” hanno dominato, anche quando nel lungo periodo si sono rivelati problematici. Sopravvive ciò che funziona nell’immediato, non necessariamente ciò che è saggio per il futuro.
Oggi viviamo in un mondo iperconnesso che crea situazioni curiose. Ogni generazione considera “normale” il mondo che trova, perdendo di vista quanto sia cambiato. I nostri nonni vedevano stormi di uccelli oggi estinti, foreste diventate città, ma noi non li rimpiangiamo perché non li abbiamo mai conosciuti. È il problema della “linea di base mobile”: la nostra percezione del normale si sposta continuamente.
Come le falene attratte dalla luce artificiale invece che dalla luna, anche noi possiamo rimanere intrappolati dai nostri successi. La plastica che ci ha rivoluzionato la vita ora galleggia negli oceani. I combustibili fossili che hanno alimentato la crescita stanno cambiando il clima. Sono trappole evolutive: innovazioni inizialmente vantaggiose che potrebbero rivelarsi controproducenti.
Il paradosso della connessione globale è forse il più sottile. Possiamo comprare una maglietta prodotta dall’altra parte del mondo, ma raramente vediamo l’inquinamento che ha causato. La distanza fisica e psicologica sembra deresponsabilizzarci. È l’opposto di quello che dovrebbe succedere: degradiamo l’ambiente, ma i costi ricadono altrove.
Questo porta a una domanda interessante: potremmo dirigere consapevolmente la nostra evoluzione verso la sostenibilità? Tradizionalmente, la cooperazione umana si è sviluppata attraverso la competizione tra gruppi. Ma su un pianeta unico, non c’è un “gruppo esterno” contro cui competere. È il “problema del pianeta unico”: servirebbe inventare meccanismi completamente nuovi di cooperazione globale.
Alcuni segnali interessanti esistono già. Coalizioni di aziende lavorano per proteggere gli oceani, le città sperimentano sostenibilità, movimenti globali connettono persone di ogni continente. Potrebbero essere i primi germi di una nuova evoluzione culturale globale.
L’evoluzione ci ha portato fin qui in milioni di anni, ma ora abbiamo forse solo decenni per capire come essere una specie sostenibile. È probabilmente la sfida più complessa mai affrontata: evolvere non più per caso, ma per scelta consapevole. Abbiamo già molti strumenti necessari: scienza, tecnologia, capacità di cooperare. Quello che sembra mancare è la volontà collettiva di usarli in modo coordinato.
Il futuro della Terra dipende sempre meno dalle leggi naturali e sempre più dalle nostre scelte. Per la prima volta nella storia dell’universo, l’evoluzione potrebbe essere nelle mani di chi la subisce. Non siamo più semplici prodotti della selezione naturale, ma potremmo diventarne gli architetti consapevoli. Il tempo sembra stringere, ma le possibilità restano molte.
(Autore: Paola Peresin)
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