Divieto di licenziamento per causa di matrimonio

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Il divieto di licenziamento per causa di matrimonio ha rilevanza nelle tutele antidiscriminatorie del diritto del lavoro. È caratterizzata dalla presunzione di nullità fondata su un dato meramente oggettivo, superabile soltanto in presenza di specifiche eccezioni tassative.

L’ordinamento giuridico contempla una particolare protezione nei confronti della lavoratrice che contrae matrimonio, mediante il divieto di licenziamento accompagnato da una presunzione di nullità. Tale istituto trova la sua disciplina nell’art. 35 del D.Lgs. 198/2006, noto come “Codice delle pari opportunità tra uomo e donna”. La norma stabilisce che il licenziamento è nullo quando viene irrogato nel lasso temporale compreso tra la richiesta delle pubblicazioni e il decorso di un anno dalla celebrazione delle nozze.

La giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato la rilevanza esclusiva del dato oggettivo nella configurazione di tale fattispecie, sottolineando come la protezione accordata alla lavoratrice che contragga matrimonio non sia subordinata ad alcun obbligo di comunicazione da parte di quest’ultima.

Come precisato dalla Suprema Corte (ex pluris Cass., 10.01.2005, n. 270; Cass., 31.08.2011, n. 17845), rileva esclusivamente il dato oggettivo del matrimonio a comportare l’interdizione della facoltà di recesso del datore di lavoro. Tale impostazione ricalca il medesimo approccio adottato nella disciplina a tutela della lavoratrice madre, come previsto dall’art. 54, c. 2 D.Lgs. 151/2001, secondo cui “il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza”.

L’efficacia della tutela risulta rafforzata dall’impossibilità per il datore di lavoro di acquisire legittimamente conoscenza delle pubblicazioni matrimoniali, trattandosi di una circostanza estranea alla sfera lavorativa; tale ostacolo trova ulteriore fondamento nell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori, che vieta espressamente al datore di lavoro qualsiasi indagine su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore. La disciplina in commento, quindi, si caratterizza per il carattere assoluto del dato oggettivo, che comporta, tra l’altro, la reintegrazione della lavoratrice in ogni ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato nel periodo protetto. La presunzione di nullità stabilita dall’art. 35, tuttavia, non riveste carattere assoluto, potendo essere superata dalla prova contraria. Al riguardo, il c. 5 della medesima disposizione individua tassativamente 3 ipotesi:

– colpa grave della lavoratrice: deve trattarsi di comportamenti costituenti giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro, secondo i principi generali del diritto del lavoro;

– cessazione dell’attività aziendale: l’interruzione definitiva dell’attività dell’azienda cui la lavoratrice è addetta determina l’impossibilità oggettiva di proseguire il rapporto;

– ultimazione delle prestazioni o scadenza del termine: si riferisce ai casi in cui il rapporto di lavoro si risolva naturalmente per il completamento delle prestazioni per le quali la lavoratrice è stata assunta ovvero per il raggiungimento del termine contrattualmente previsto.

Al di fuori di tali circostanze, il licenziamento intimato nel periodo coperto dal divieto si considera nullo, con conseguente obbligo di reintegrazione della lavoratrice e risarcimento del danno.

Infine, un profilo di particolare interesse dottrinale e giurisprudenziale (cfr. Cass. n. 28926/2018) riguarda l’applicabilità della presunzione di nullità anche ai lavoratori di sesso maschile. Il dato testuale della norma fa riferimento esclusivamente alla “lavoratrice”, sollevando interrogativi circa la possibilità di estendere analogicamente la tutela anche agli uomini che contraggano matrimonio.

La questione, nonostante il mutato contesto sociale, rimane oggetto di dibattito, dovendo confrontarsi con i principi costituzionali di uguaglianza e non discriminazione, da un lato, e con il carattere specifico della tutela originariamente concepita per contrastare fenomeni discriminatori storicamente diretti contro le lavoratrici, dall’altro. In altri termini, la ratio della norma in questione risiede nella necessità di garantire una diversità di trattamento motivata dalla tutela costituzionale della maternità. La disposizione, infatti, mira a contrastare il vero obiettivo spesso sotteso al licenziamento per matrimonio, vale a dire non le nozze in sé, ma il timore di un’eventuale e prolungata assenza della lavoratrice madre.

(Autore: Mario Cassaro – Sistema Ratio)
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