Ceneda tra castello e convento viaggio nei luoghi dello spirito di Vittorio Veneto

Salendo verso il castello vescovile di Ceneda, oggi residenza del vescovo di Vittorio Veneto, è difficile immaginare che tra queste mura un tempo si trovasse una piccola chiesa dedicata a San Martino, descritta nel 1582 come “bellissima non per grandezza, ma per vaghezza”, adornata da otto statue. Di quel luogo di preghiera non resta più traccia; rimane però la mole del castello, che continua a dominare dall’alto il nucleo storico di Ceneda, da sempre in dialogo con Serravalle nella storia della città.

Le origini della fortezza non hanno una data precisa. Un primo riferimento sembra legarsi alla presenza degli Ostrogoti tra V e VI secolo, mentre la dedicazione a San Martino rimanda al successivo dominio dei Longobardi o dei Franchi. L’aspetto attuale è il risultato di una lunga stratificazione: alla base resta il carattere di rocca medievale, ma all’interno si incontrano edifici rinascimentali e interventi del Novecento, frutto di restauri e adattamenti funzionali.

Oggi il complesso racchiude anche due cappelle recenti. Una è stata realizzata nel 2009, l’altra risale ai lavori seguiti al terremoto del 1936 e ha ripreso l’antica intitolazione a San Martino di Tours. Qui, al centro dell’attenzione, c’è la pala d’altare che raffigura il santo nell’atto di dividere il proprio mantello con un povero. Le due figure e il cavallo occupano la scena su uno sfondo quasi spoglio, essenziale.

L’autore del dipinto è ignoto, ma il linguaggio pittorico richiama da vicino la sensibilità Ottocentesca. La tavolozza gioca sui toni bruni, illuminati dal rosso intenso del tessuto che scende dalle spalle di Martino: è il dettaglio su cui l’occhio torna più volte, perché racchiude il significato del gesto di carità. Anche la spada, nelle mani del santo, cambia valore: da strumento di guerra diventa simbolo di una scelta di vita, segno di un modo diverso di usare la forza.

L’ambiente che accoglie la pala è estremamente semplice. Le pareti sono scandite da fregi vegetali di gusto novecentesco, senza altre decorazioni che possano distrarre lo sguardo. Questa sobrietà fa emergere con ancora più forza i due poli della cappella: il dipinto di San Martino e la presenza delle sepolture vescovili. Al centro del pavimento, infatti, una lastra in marmo indica il luogo in cui riposano i vescovi Eugenio Beccegato, Fortunato Zoppas, Antonio Cunial e Alfredo Magarotto. I loro nomi si affiancano idealmente alla teoria degli emblemi dei predecessori che decora il piccolo ambiente d’ingresso e la vicina Sala degli Stemmi, creando un continuo tra memoria iconografica e memoria sepolcrale.

Se nella cappella di San Martino prevale la misura, nel borgo di Ceneda esiste un luogo di culto dove lo sguardo è invece catturato dall’abbondanza decorativa. È la chiesa di Santa Maria Maggiore, annessa all’attuale convento di San Giuseppe, che conserva un prezioso soffitto a stucchi e affreschi della seconda metà del Seicento, vero capolavoro barocco in miniatura.

Il ciclo pittorico ruota intorno alla figura di Sant’Agostino, patrono delle fondatrici del complesso monastico nato nel 1621. Nella partitura centrale del soffitto il santo offre il proprio cuore al Bambino Gesù, mentre attorno un gruppo di religiose prega in atteggiamento raccolto. È una scena che racconta, in forma visiva, l’identità spirituale del luogo, legata alla vita contemplativa e allo studio della Parola.

A sottolineare l’origine claustrale della chiesa è anche un dettaglio meno appariscente, ma molto eloquente, sulla parete di fondo del presbiterio. Qui si trova una pala cinquecentesca, di attribuzione non sicura, con una Madonna col Bambino coronata dagli angeli su uno sfondo luminoso. Accanto, le finestre con le grate mostrano il confine fisico tra il coro interno e l’aula, simbolo di una vita segnata dalla separazione dal mondo esterno, ma aperta al dialogo attraverso la liturgia. Sono feritoie da cui per secoli sono passate voci di preghiera, canti, letture.

Visitare Ceneda con lo sguardo di una guida locale significa tenere insieme questi due poli: da un lato la sobrietà raccolta della cappella di San Martino dentro il castello, con le sue sepolture vescovili e l’eco di una carità concreta; dall’altro la ricchezza di Santa Maria Maggiore, dove stucchi e affreschi compongono un racconto corale di fede monastica. In pochi passi si passa dalla semplicità spaziale al pieno linguaggio barocco, dentro uno stesso “scrigno di luoghi dello spirito” che continua a raccontare la storia religiosa di Vittorio Veneto.

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