La storia di Gloria De Biasi, chirurgo in Burundi: “Ora sogno Medici senza frontiere”

Spesso si è parlato di sanità, per i problemi e le criticità che l’ambito ha e sta presentando a livello nazionale.

Ma stavolta si tratta di una storia di buona sanità, o meglio, la vicenda di chi ha fatto della propria passione per la Medicina uno strumento per dare un aiuto concreto, in quei territori dove mancano tutte le comodità che noi conosciamo.

Si tratta della storia di Gloria De Biasi, giovane medico specializzato in Chirurgia generale, originaria di San Pietro di Feletto, da sempre con la passione per la cooperazione internazionale.

Dopo un’esperienza di due settimane in Benin, si è diretta in Burundi dove, per due volte (la prima completamente da volontaria), ha messo il suo sapere e la propria professionalità al servizio di un ospedale locale, cogliendo tutte le differenze (di vita, di pensiero, di abitudini e del sistema sanitario) rispetto alla nostra quotidianità.

“Sicuramente non è stata un’esperienza semplice – è la premessa fatta da Gloria De Biasi – Già nel 2021, dopo la specializzazione, ho fatto domanda in alcune ong e a Medici senza frontiere, dove non sono entrata in quanto cercavano medici con esperienza dai 3 ai 5 anni”.

Gloria ha quindi fatto l’esperienza in Burundi con l’associazione Vispe (Volontari italiani solidarietà Paesi emergenti) di Milano, ovvero un’associazione di volontari laici, d’ispirazione cristiana, che hanno scelto di lavorare nei Paesi più poveri del mondo.

Esperienza maturata prima da gennaio a inizio aprile e, successivamente, da giugno a novembre di quest’anno. Lì si è occupata di interventi vari, tra cui parti cesarei e operazioni di ortopedia.

“L’idea della cooperazione internazionale è iniziata durante gli anni di Medicina anche se, in realtà, fin da piccola mi sono sempre interessata a certe tematiche – ha raccontato – Sicuramente là è tutto più difficile, in quanto hanno un modo diverso di affrontare le cose rispetto a noi. Inoltre, la sanità lì è totalmente a pagamento: vengono contate le siringhe e le garze utilizzate, addirittura la quantità di disinfettante impiegato, poi viene messo tutto in conto al paziente. Questo fa pensare a quanto siamo fortunati”.

“Durante quel periodo mi sono legata molto a una bambina, che aveva presentato delle complicanze dopo un intervento per un problema addominale – ha spiegato – Ero l’unica italiana e l’unica europea tra i medici che, al contrario, erano tutti burundesi e congolesi. Nello staff, di italiane c’erano soltanto un’infermiera e una fisioterapista. Lì vicino, però, c’erano diverse comunità religiose, gestite da suore e sacerdoti, con diverse persone italiane”.

Un arrivo, quello in Burundi, che non è stato affatto semplice.

“Le prime due settimane mi sentivo un attimo spaesata, dal momento che ero in contatto con persone che erano così immerse con la natura, da sembrare totalmente distanti dalla nostra società – ha raccontato – Tra le cose che più mi hanno colpito c’è sicuramente la condizione della donna in Burundi: lì si sposano giovanissime e hanno in media dieci figli quindi, visti tutti questi parti, affrontano cesarei anche molto rischiosi. Addirittura chiedono al marito di prendere le decisioni in merito alla loro salute”.

“Tantissimi bimbi lavorano fin da piccoli nei campi, in quanto i figli (anche se poi faticano a mantenerli) vengono visti come una risorsa – ha proseguito – C’è inoltre un grande problema di alcolismo sia tra gli uomini che tra le donne: in casa producono la birra di banana e di sorgo, mentre a livello industriale ci sono bottiglie da 60 cl. Ecco, ho visto donne berne addirittura tre a testa”.

Anche le condizioni in ospedale sono diverse da quelle che abitualmente noi conosciamo, con lunghe degenze.

“In ospedale si vedono per lo più donne e bambini, soprattutto con problemi ortopedici provocati da cadute. Difficilmente si vedono i papà, mentre ogni paziente ha una persona che lo affianca tutto il giorno. Inoltre gli ospedali registrano un numero altissimo di parti all’anno – ha spiegato – Come dicevo, è un sistema sanitario a pagamento, con cifre davvero insostenibili: questo è uno dei motivi per cui le persone, prima di andare in ospedale, spesso si rivolgono allo stregone“.

“Una delle cose più singolari è che ci sono persone da 15 anni ricoverate in ospedale: questo perché le case, fatte di terra, non sono molto agevoli, anche per cose semplici come le medicazioni e, di conseguenza, le persone sono costrette a trascorrere molto tempo in ospedale e lo fanno senza avere reazioni, senza leggere o fare nulla tutto il giorno. Una cosa strana per noi – ha proseguito – Per quanto riguarda la sala operatoria, invece, devo dire che il materiale è buono e molto arriva anche dall’Italia, mentre sono sprovvisti di tac e di altre strumentazioni utili a fare una diagnosi”.

Differenze, quindi, che hanno portato Gloria ad affrontare l’esperienza con un certo spirito.

“La preparazione dei medici è invece a livello basso e l’atteggiamento del personale è poco aperto a suggerimenti e indicazioni: per questo motivo, nei primi tempi ho osservato per capire e non dare l’impressione di voler fare la saputella – ha riferito – Mi piacerebbe poter continuare a fare queste esperienze almeno 3-4 mesi all’anno, soprattutto per aiutare i bambini, che sono la parte più innocente della popolazione”.

“Ora sogno di entrare in Medici senza frontiere oppure organizzazioni come Emergency e Cuamm, quindi nei prossimi mesi frequenterò dei corsi mirati – ha concluso – Ho mantenuto rapporti con la popolazione locale. Il mio augurio per loro? Di non vedere più persone morire per malnutrizione o patologie che da noi sono curabili”.

(Autore: Arianna Ceschin)
(Foto: per gentile concessione di Gloria De Biasi)
(Articolo di proprietà di Dplay Srl)
#Qdpnews.it riproduzione riservata

Related Posts