Al Museo del Baco da Seta, le voci delle filande: donne, bachi e memoria operaia a Vittorio Veneto

Entrare al Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto nei giorni attorno all’8 marzo ha un effetto particolare: le teche e le macchine restano al loro posto, ma cambiano le “presenze”. Perché la Giornata internazionale della donna qui diventa un modo concreto per rientrare nelle case contadine e nelle filande di fine Ottocento e primi Novecento, seguendo le tracce di chi passava le giornate tra bachi, bozzoli e lavori di casa, senza mai chiamarlo eroismo.

La conservatrice dei Musei Civici, dott.ssa Francesca Costaperaria e l’antropologa Elisa Bellato

La serata si intitolava “Storie di donne d’altri tempi” e ha scelto un taglio netto, tutto al femminile. A guidare il racconto è stata l’antropologa Elisa Bellato, affiancata dalla conservatrice dei Musei Civici, Francesca Costaperaria. Il punto di partenza, apparentemente semplice, era in realtà una domanda che apre mondi: come viveva la donna veneta tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento? Quali erano le sue condizioni, e che cosa le veniva concesso di pensare davvero? Bellato ha ricordato un nodo fondamentale: per lungo tempo la storia è stata scritta quasi sempre dagli uomini e, di conseguenza, il passato ci arriva spesso filtrato da uno sguardo parziale.

Donne impegnate nella lavorazione della lana 

Da qui entra in gioco il quadro dei women studies, che provano a rimettere a fuoco la società con occhi diversi, studiando le donne del passato dal punto di vista delle donne di oggi. E quando fai questo cambio di prospettiva, anche il giudizio su quegli anni si sposta: molti uomini, potendo tornare indietro, accetterebbero volentieri; molte donne, invece, sapendo cosa hanno patito, difficilmente lo farebbero. Non è una frase a effetto, è un modo per rimettere ordine nelle scale di valore.

L’interno di una Filanda 

Per capire perché proprio qui, a Vittorio Veneto, la questione femminile si intrecci così tanto con la seta, bisogna tornare alla bachicoltura. Per decenni ha segnato il paesaggio con i filari di gelsi e ha garantito una risorsa decisiva alle famiglie contadine. Era un’attività domestica integrativa, all’inizio, ma si trasformò in un motore produttivo vero: allevamento dei bachi, trattura della seta e industria del seme-bachi arrivarono a livelli d’avanguardia, tanto che per un lungo periodo la seta fu la prima attività economica della zona. I numeri che Bellato ha richiamato rendono bene la dimensione: nel 1930 la provincia di Treviso era prima in Italia per produzione di bozzoli, con 5 milioni e mezzo di chilogrammi; nel 1936 si contavano 40 mila famiglie contadine impegnate nell’allevamento; nel 1948 il primato provinciale si manteneva ancora; nel 1952 risultavano 17 stabilimenti bacologici, 97 essiccatoi e 44 filande. In mezzo a questo sistema, il centro della scena era soprattutto uno: la donna.

Servivano delle mani piccole e delicate per la lavorazione del baco da seta

A casa, infatti, l’allevamento dei bachi veniva affidato a lei ed era spesso la prima entrata in denaro del bilancio familiare. Un lavoro delicato, che non ammetteva distrazioni. I bachi andavano nutriti più volte al giorno con foglia fresca, e di notte ci si alzava per controllarli e sfamarli. I bambini davano una mano, soprattutto nella raccolta delle foglie di gelso. Poi, conclusa la fase domestica, iniziava l’altra vita: quella in filanda.

Il lavoro alla Filanda, le 
mistre

Si cominciava presto, prestissimo: spesso a undici anni. Gli ambienti erano caldi, saturi di vapore, e il contatto continuo con l’acqua bollente lasciava segni sulle mani. L’odore della seta in lavorazione era forte, insistente. La maggior parte delle mansioni era femminile, mentre la figura maschile, di norma, stava alla direzione. Bellato ha insistito su un passaggio che si capisce bene anche ascoltando i racconti di famiglia: i figli, vedendo la fatica delle madri, maturavano rispetto e senso del dovere, aiutando sia nell’allevamento sia nelle faccende domestiche. Quelle madri degli anni Quaranta, in tanti ricordi, sono diventate un modello di sacrificio silenzioso.

“Tanta fatica nel spingere qualcosa di più grande di te”

La serata non si è fermata al lavoro. Ha aperto una finestra sul modo in cui si stava in casa, sul potere, sulle alleanze, sulle regole non scritte. Nel territorio era diffuso il modello della residenza patrilocale: dopo il matrimonio i figli maschi restavano nella casa dei genitori con la moglie, mentre la sposa lasciava la propria famiglia d’origine. In quella nuova casa, spesso, l’unico alleato era il marito. E il denaro guadagnato con il lavoro finiva nel bilancio del nucleo allargato. Era un equilibrio imposto dalla fame e dalla miseria, tenuto in piedi soprattutto dal sacrificio femminile. Per leggere questa condizione Bellato ha proposto due parole chiave: agency, cioè lo spazio di libertà nel far valere la propria volontà dentro regole già date (e negli anni Quaranta questo spazio era molto limitato), e sestìn, il garbo, il “saper stare al proprio posto”. La donna doveva essere composta, dritta, mani in grembo, volto neutro, senza esporre emozioni e pensieri.

L’incontro “Storie di donne d’altri tempi” al Museo del Baco da Seta a Vittorio Veneto 

In un quadro così rigido, un sostegno arrivava dalla religione. La preghiera quotidiana offriva una cornice di senso e un conforto profondo. Molte donne andavano in chiesa anche due volte al giorno. Bellato ha osservato che la ripetizione delle preghiere poteva avere un effetto simile alla meditazione: calmava, rassicurava, aiutava a reggere. L’idea di una vita diversa, spesso, non veniva neppure coltivata. Si accettava la propria condizione e disperarsi era considerato un peccato: nei momenti più duri ci si affidava a Dio.

Anche il momento del cibo raccontava gerarchie e fatica. Le donne, spesso, non sedevano a tavola con il resto della famiglia: restavano in piedi, servivano gli altri e poi mangiavano ciò che rimaneva. Le parti meno “nobili”, come zampe, testa o collo della gallina, finivano a loro. Eppure, ha spiegato Bellato, non sempre questo diventava lamentela: a volte veniva riletto psicologicamente come un piccolo piacere, quasi fosse una scelta. Per contrasto, dopo il parto la società contadina mostrava un’attenzione particolare: la puerpera veniva messa a letto e nutrita con cura, considerata fragile e bisognosa di protezione per evitare conseguenze permanenti.

La signora Teresa e il ricordo dei tempi passati 

A chiudere l’incontro è arrivata la parte che, in un museo, fa davvero la differenza: una testimonianza diretta. La signora Teresa, nata nel 1928, ha raccontato la sua vita in filanda. Entrata a undici anni, iniziò come scoatina e poi diventò mistra. Rimase fino ai quindici anni, quando il matrimonio la riportò a tempo pieno tra casa e famiglia, come voleva l’usanza. Ha parlato di caldo intenso, mani spesso bruciate, odore penetrante. Ma ha raccontato anche un rispetto reciproco con il padrone, dentro ruoli chiari, senza romanticismi. E ha spiegato un punto che oggi si perde facilmente: non si sentiva “operaia” nel senso moderno. I soldi non erano solo suoi, erano della famiglia. Lei stessa si percepiva come un ingranaggio necessario alla sopravvivenza di tutti.

È qui che una visita al Museo del Baco da Seta di Vittorio Veneto cambia passo. Le macchine, i bozzoli e le fotografie restano fondamentali, certo. Però serate come questa aggiungono qualcosa che non si può esporre in vetrina: le voci. Le storie raccolte e restituite da Elisa Bellato fanno leggere la bachicoltura non solo come pagina di economia locale, ma come tessuto di vite femminili, intrecciato di fatica, responsabilità, fede e ingegno, e decisivo per capire la storia di questo territorio.

(Autore: Redazione di Qdpnews.it)
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