Possiamo davvero definire sostenibile un’attività commerciale se non abbiamo alcun dato scientifico che lo dimostri? Questa domanda, apparentemente semplice, svela una delle contraddizioni più profonde del nostro tempo: il commercio globale di fauna selvatica. Qui un recente studio che ne evidenzia i limiti.
Ogni anno, miliardi di animali selvatici attraversano i confini internazionali per alimentare mercati che vanno dagli animali domestici ai prodotti medicinali tradizionali, dalle decorazioni ai trofei di caccia. I numeri sono di una dimensione che sfida l’immaginazione: solo negli Stati Uniti, uno dei maggiori importatori mondiali, sono state registrate oltre ventimila specie diverse e più di due miliardi e ottocentocinquanta milioni di individui commercializzati in poco più di due decenni. Quando questi dati vengono combinati con quelli della Convenzione CITES, il numero sale a quasi trentamila specie totali.
Eppure, dietro questi numeri impressionanti si nasconde una realtà scomoda che tocca il cuore stesso della sostenibilità ambientale. Quasi un quarto degli individui commercializzati proviene direttamente da popolazioni selvatiche prelevate nei loro habitat naturali. Per alcuni gruppi tassonomici, questa percentuale raggiunge livelli che dovrebbero far suonare ogni campanello d’allarme: il novantotto percento di stelle marine, ricci di mare e coralli proviene direttamente dalla natura, così come il novantacinque percento dei mammiferi marini.
La mancanza di dati non è l’eccezione, ma la regola. Per la stragrande maggioranza delle specie commercializzate non esistono informazioni sulla sostenibilità di questo prelievo. Non sappiamo se le popolazioni selvatiche possano sopportare questi livelli di raccolta, non conosciamo l’impatto sugli ecosistemi, non monitoriamo i trend demografici. In sostanza, stiamo gestendo una delle industrie più globalmente pervasive praticamente al buio, sperando che la natura sia abbastanza robusta da assorbire qualsiasi pressione.
Il problema non riguarda solo il commercio illegale, spesso al centro dell’attenzione mediatica. Il commercio legale rappresenta la maggioranza del traffico mondiale di fauna selvatica, ma “legale” non è automaticamente sinonimo di “sostenibile”. Migliaia di transazioni avvengono ogni giorno nel pieno rispetto delle normative nazionali e internazionali, eppure senza alcuna verifica scientifica del loro impatto a lungo termine sulle popolazioni naturali.
Il divario tra protezione e commercio è drammatico. Gli Stati Uniti, attraverso il loro sistema di monitoraggio, hanno registrato l’importazione di specie rappresentanti il quarantasei percento degli uccelli descritti a livello mondiale, il ventotto percento dei mammiferi, il ventisei percento dei rettili e il sedici percento degli anfibi. Questo significa che una frazione significativa della biodiversità terrestre passa attraverso il commercio internazionale, spesso senza alcuna valutazione preliminare di sostenibilità.
Anche quando esistono protezioni formali, il sistema mostra crepe profonde. Le valutazioni di sostenibilità richieste dalla CITES per autorizzare il commercio di specie protette sono spesso incomplete, basate su dati insufficienti, non sottoposte a revisione indipendente e influenzate da conflitti di interesse. Il risultato è che persino le specie formalmente protette continuano a subire pressioni che possono rivelarsi insostenibili.
La ricerca scientifica ha documentato numerosi casi in cui il commercio legale ha portato specie sull’orlo dell’estinzione. Specie recentemente descritte dalla scienza finiscono nel commercio internazionale entro mesi dalla loro scoperta, popolazioni endemiche di isole collassano sotto la pressione della raccolta, specie considerate “comuni” diventano rare in pochi anni di commercio intensivo. La mancanza di monitoraggio significa che spesso ci accorgiamo del problema solo quando è troppo tardi per intervenire efficacemente.
Il commercio legale si rivela anche un vettore silenzioso di invasioni biologiche. L’analisi dei dati di importazione statunitensi ha rivelato che ventotto delle cento specie invasive più dannose al mondo sono state importate legalmente, mentre oltre duecento specie invasive conosciute sono state registrate nei database commerciali ufficiali. Questo dimostra come anche il commercio perfettamente conforme alle leggi possa generare conseguenze ecologiche devastanti per i paesi importatori.
L’insostenibilità del commercio è anche economicamente autodistruttiva. Le comunità locali che dipendono dalla fauna selvatica per il sostentamento perdono tutto quando le popolazioni collassano. La sostenibilità economica e quella ecologica sono inscindibilmente legate, eppure il sistema attuale scarica i costi del monitoraggio e della gestione sostenibile sui paesi più poveri, che sono spesso anche i principali fornitori di fauna selvatica.
Le rare storie di successo nel commercio sostenibile di fauna selvatica condividono caratteristiche molto specifiche che attualmente sono l’eccezione piuttosto che la regola. Questi casi dimostrano che è possibile, ma solo quando si investe seriamente in dati rigorosi che riguardano le popolazioni selvatiche, in un monitoraggio continuo, nel coinvolgimento attivo delle comunità locali, nei meccanismi di controllo trasparenti e nella revisione scientifica indipendente.
È necessario un cambio di paradigma fondamentale. Invece di presumere che il commercio sia sostenibile fino a prova contraria, dovremmo invertire l’onere della prova e richiedere evidenze scientifiche robuste di sostenibilità prima di autorizzare qualsiasi commercio. Questo approccio precauzionale non è anti-commercio, ma pro-sostenibilità del commercio. Un’industria che esaurisce le proprie risorse non ha futuro.
La trasparenza dei dati è altrettanto cruciale. Attualmente, la maggior parte delle informazioni commerciali rimane nascosta, rendendo impossibile per ricercatori e conservazionisti valutare l’impatto reale del traffico. Sistemi di tracciabilità simili a quelli utilizzati nell’industria alimentare potrebbero rivoluzionare la gestione del commercio di fauna selvatica, permettendo un controllo in tempo reale dei flussi e delle pressioni sulle popolazioni naturali.
La conclusione è inevitabile e scientificamente incontrovertibile: senza dati affidabili non può esistere sostenibilità. Continuare a commercializzare miliardi di animali selvatici sperando che le popolazioni resistano è una scommessa che il pianeta non può permettersi di perdere. Il futuro del commercio di fauna selvatica dipende dalla nostra capacità di trasformarlo da un’attività estrattiva condotta alla cieca in un sistema di gestione scientificamente informato e rigorosamente monitorato. Solo attraverso questa trasformazione potremo garantire che le meraviglie della biodiversità terrestre continuino a esistere e a prosperare per le generazioni future, sostenendo al contempo le comunità umane che dipendono da queste risorse in modo veramente sostenibile.
Database e fonti dati:
LEMIS Database – US Fish and Wildlife Service
Database più completo al mondo sul commercio di fauna selvatica negli Stati Uniti
CITES Trade Database
Dati ufficiali sul commercio internazionale di specie protette dalla Convenzione di Washington
(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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