Il viaggio senza ritorno di Paul Imhoff

Da sinistra: Santa Croce al Lago, la lapide dedicata a Paul Imhoff e il blasone della famiglia Imhoff

Santa Croce del Lago è una piccola chiesa della provincia bellunese, situata sulle sponde dell’omonimo bacino. L’edificio, ricostruito alla fine dell’Ottocento all’indomani di un disastroso terremoto, poggia sulle fondamenta di antichissimi luoghi di culto risalenti addirittura all’anno Mille. Del passato di Santa Croce restano poche tracce: una pala seicentesca raffigurante la Deposizione dalla Croce, un ritratto di Santa Filomena e una curiosa lapide marmorea affissa su una delle pareti esterne.

L’altorilievo, segnato dal tempo, riproduce l’Orazione di Cristo nel giardino dei Getsemani, la preghiera che Gesù recita nell’uliveto poco prima di essere imprigionato. Attribuita alla bottega di Pietro Lombardo, scultore ticinese attivo a Venezia, l’opera commemora Paul Imhoff, patrizio di Norimberga morto nel 1478. Ma chi era costui? E cosa lo aveva spinto in quel luogo?   

Per saperne qualcosa in più sono necessarie alcune considerazioni sull’Alpago, la depressione a sud di Belluno circondata dai rilievi prealpini, solcata dal fiume Piave e ricca di boschi maestosi; uno spazio geografico che, nei secoli, ha alternato periodi di relativo isolamento a momenti economicamente e culturalmente più vivaci.

Nel Quattrocento il territorio alpagotto era sotto il dominio della Serenissima e viveva una stagione piuttosto florida destinata a durare almeno sino alla fine del Settecento. Le tumultuose acque del Piave erano teatro delle gesta degli zattieri che rifornivano di tronchi l’arsenale di Venezia; le vie di terra, collegate agli storici tracciati della Claudia Augusta e dell’Alemagna, erano percorse da pellegrini, soldati e mercanti che, a piedi o a cavallo, si muovevano spinti da impulsi religiosi, intenzioni bellicose o ambizioni economiche. I percorsi che dai paesi del nord Europa convergevano sulla Serenissima attraverso l’Alpago erano impegnativi, incerti e pericolosi sia a causa dell’asperità dei terreni che per la presenza di famelici predoni. A tutto ciò si sommavano le difficoltà legate alla lingua e alle diverse usanze, anche alimentari, che i viandanti dovevano affrontare nei loro spostamenti.

Paul Imhoff, l’uomo della lapide, era un mercante e apparteneva a un mondo eterogeneo fatto di umili venditori porta a porta, bottegai, commercianti alla perenne ricerca di una fiera, imprenditori internazionali e usurai. Individui assai diversi fra loro, per censo e per status, accomunati da qualità fra cui memoria, scaltrezza, dimestichezza con le operazioni di cambio e propensione per lingue straniere.

Gli Imhoff (o Im Hof) erano famosi e rispettati già dal Duecento: originari di Norimberga, in Baviera, si affermarono prima in Germania e in Europa Orientale, poi approdarono a Venezia nella seconda metà del Trecento. Imparentati con illustri dinastie di banchieri come i Fugger, alleati di solide famiglie mercantili bavaresi, potenti anche da un punto di vista politico, gli Imhoff commerciavano tabacco, pellami, stoffe, vino, spezie e metalli preziosi. Merci alle quali si aggiungevano oggetti di lusso prodotti in Germania, seta e armi.

Una trentina di anni prima della scomparsa di Paul gli Imhoff acquisirono tre locali al secondo piano del Fondaco dei Tedeschi, un edificio affacciato sul Canal Grande ove i mercanti teutonici potevano disporre di uffici, alloggi e magazzini. Occupare spazi al secondo piano del Fondaco significava appartenere alla fascia medio alta della mercatura tedesca visto che il primo piano era riservato ai meno abbienti e il terzo ai più ricchi.  Dai documenti dell’epoca emerge anche che Paul, figlio di Konrad II e Anna Rothflash, aveva tre fratelli e due sorelle.

Gli affari prosperavano e la famiglia intratteneva affari con la Boemia, la Slesia, i Paesi Bassi, la Spagna, Napoli, la Sicilia e addirittura con il lontano Oriente; alcuni membri del casato divennero addirittura banchieri. Il pepe, lo zafferano, il macis, i chiodi di garofano, lo zucchero, l’argento e i tessuti di cotone e broccato restavano il “core business” degli Imhoff il cui successo economico andava di pari passo con l’ascesa di un prestigio sociale culminato con il titolo di nobiltà concesso ai mercanti tedeschi dal patriziato veneziano. Paul intratteneva ottimi rapporti con l’aristocrazia lagunare, in particolare con i Morosini, e per accrescere l’efficacia delle sue speculazioni mercantili non esitò a prendere le distanze da alcuni dei suoi fratelli. Una dettagliata indagine storica francese attesta che, a metà del Quattrocento, gli Imhoff potevano vantarsi di essere l’impresa commerciale tedesca più in vista della Serenissima.

Il destino però ha spesso in serbo sorprese amare: proprio al culmine del successo economico e dell’affermazione sociale della dinastia Paul morì in circostanze ignote, probabilmente nei pressi della chiesa di Santa Croce. Forse era di ritorno da Norimberga, oppure si stava recando in Tirolo o in Friuli per curare in prima persona qualche affare importante. Di lui resta solo la lapide corrosa dal tempo, sempre più difficile da decifrare, che celebra le virtù e il prestigio del nobile bavarese. Un instancabile mercante che, parafrasando Shakespeare, nel 1478 partì per quel paese sconosciuto da cui nessun viaggiatore è mai tornato.  

(Foto: Wikipedia).
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