LegalMente. L’evoluzione dell’attribuzione del cognome materno al nuovo nato

Proseguono gli approfondimenti di Qdpnews.it su Leggi e Codici che regolano il nostro ordinamento, in collaborazione con gli avvocati Gabriele Traina e Alessandro Pierobon. Buona lettura.

Quando parliamo di cognome, intuiamo come assolva una duplice funzione: da un lato rappresenta un segno distintivo che identifica il soggetto nei rapporti giuridici e amministrativi e dall’altro costituisca il collegamento tra l’individuo e la propria ascendenza.

Cronologicamente si passeranno in rassegna le varie sentenze della Corte Costituzionale partendo dalla numero 13 del 1994, che attribuiva al cognome una dimensione identitaria specifica, definendo il primo e più immediato elemento che caratterizza l’identità personale, essendo quindi una componente essenziale della personalità. 

Stabiliva allora la Corte che il patrimonio inviolabile della persona umana come contenuto nell’articolo 2 della Costituzione si componeva anche del diritto all’identità personale di cui il nome è l’elemento immediatamente caratterizzante nella vita di relazione. 

L’articolo 2 e l’articolo 22 della Costituzione si compenetrano a vicenda, in quanto l’articolo 2 protegge i diritti inviolabili dell’uomo mentre l’articolo 22 specifica come sia vietata la privazione del nome per motivi politici, rafforzando quindi ulteriormente la dignità personale.

Ricordiamo che l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo tutela proprio il diritto al rispetto della vita privata e familiare, all’interno della quale sicuramente rientra il diritto al nome. 

Nel dettaglio, ci occupiamo di quella che era la trasmissione automatica del cognome paterno, come concepito nel 1942 nel Codice civile nella parte inerente il diritto di famiglia agli articoli 262 e 299, ove il cognome paterno si trasmetteva ope legis. In realtà non si trasmetteva solo ai figli il cognome ma anche alla donna coniugata, anche alla luce della riforma del diritto di famiglia del 1975, ove all’articolo 143 bis del Codice civile si dispone che la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva anche durante lo stato vedovile fino a che passi a nuove nozze.

È evidente che senza privare la moglie del proprio cognome originario emerge la centralità simbolica del cognome paterno da un lato e del marito dall’altro.

La prima incrinatura di questo automatismo che riguardava buona parte anche dei Paesi europei dell’Unione Europea si ha con il famoso caso Garcia Avello, con la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 2 ottobre 2003, causa numero 148 del 2002.

Il procedimento riguardava due minori con doppia cittadinanza belga e spagnola, i genitori dei quali avevano chiesto alle autorità belghe di attribuire ai figli un cognome composto come di norma in Spagna, cioè cognome paterno, seguito da quello materno: le autorità belghe si rifiutarono applicando il solo cognome paterno. La Corte interveniva richiamando gli articoli 12-17 della Convenzione Europea, ritenendo che il rifiuto costituisce una restrizione ingiustificata e sproporzionata all’esercizio dei diritti derivanti dalla cittadinanza dell’unione.

La Corte afferma che il principio dell’immutabilità del cognome in quanto strumento destinato a prevenire i rischi di confusione in materia di identità o filiazione non è tuttavia indispensabile al punto tale da non poter ammettere una prassi consistente nel permettere ai figli che siano cittadini di uno Stato membro e che abbiano anche la cittadinanza di un altro Stato membro di portare un cognome composto da elementi diversi da quelli previsti dal diritto del primo Stato membro, cognome che costituisce peraltro oggetto di un’iscrizione in un registro ufficiale del secondo Stato.

Il primo caso italiano è quello sempre giudicato dalla Corte Europea con la sentenza Cusan e Fazzo (2014), dove la Corte Europea riteneva violato l’articolo 14 e 8 della convenzione in materia di attribuzione del cognome ai figli nati da genitori coniugati, infatti la Corte sosteneva che (nel caso in cui, come quello nella fattispecie, dove i coniugi avevano optato per dare un unico cognome al figlio e cioè quello materno, richiesta poi rigettata dagli organi amministrativi) la determinazione del cognome dei figli legittimi fosse fatta unicamente sulla base di una discriminazione fondata sul sesso dei genitori. La regola in questione vuole infatti che il cognome attribuito sia – senza eccezioni – quello del padre, nonostante la diversa volontà comune ai coniugi.

Richiama la Corte Europea anche la Corte Costituzionale Italiana, che a suo dire aveva già iniziato a riconoscere che il sistema in vigore in Italia deriva da una concezione patriarcale della famiglia e della potestà maritale che non è più compatibile con il principio costituzionale dell’eguaglianza tra uomo e donna.

Questo orientamento ha esercitato una pressione crescente sull’ordinamento italiano e soprattutto sull’orientamento delle successive sentenze della Corte Costituzionale che ha mostrato sempre più sensibilità alle istanze provenienti dalla giurisprudenza sovranazionale, appunto quella della CEDU.

Soltanto nel 2016 la Corte Costituzionale compiva un’apertura molto maggiore dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’automatismo che impediva qualora i genitori fossero di comune accordo di attribuire anche il cognome materno oltre a quello paterno. Chiaramente si parlava ancora di principio del consenso congiunto che però lasciava intatta la regola della prevalenza del cognome paterno. 

La Corte, con la sentenza 21 dicembre 2016 numero 286, poteva stabilire che il criterio della prevalenza del cognome paterno e la conseguente disparità di trattamento dei coniugi medesimi non trovano giustificazione nell’articolo 3 della Costituzione né nella salvaguardia dell’unità familiare di cui l’articolo 29 della Costituzione. Pertanto, la Corte ritiene sussistere la violazione del principio di uguaglianza morale e giuridica dei coniugi, realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre a che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddicendo quella finalità di garanzia dell’unità familiare individuata quale ratio giustificatrice di eventuali deroghe alla parità dei coniugi.

Soltanto con la sentenza N. 131 del 2022 del 31 maggio la Corte ha eliminato la presunzione normativa di prevalenza del cognome paterno.

E’ la prima volta in cui la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale articolo 262, comma uno, Codice civile, nella parte in cui prevedeva l’attribuzione automatica del solo cognome del padre, in caso di riconoscimento contestuale da parte di entrambi i genitori non coniugati.

Da tale dichiarazione, conseguentemente, discende l’illegittimità della regola con riferimento ai figli nati entro il matrimonio, in costanza di matrimonio, dato che i figli sono equiparati. Nel dettaglio, la Corte sostiene che la norma sull’attribuzione del cognome del padre è il retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, il riflesso di una disparità di trattamento che, concepita in seno alla famiglia fondata sul matrimonio, si è proiettata anche sull’attribuzione del cognome al figlio nato fuori dal matrimonio, ove quest’ultimo sia contemporaneamente riconosciuto dai genitori. 

Tale automatismo non trova giustificazione nell’articolo 3, sul quale si fonda il rapporto fra i genitori uniti nel perseguire l’interesse del figlio. La norma sull’attribuzione del cognome ai figli nati nel matrimonio è costituzionalmente illegittima nella parte in cui prevede l’attribuzione del cognome del padre al figlio, anziché prevedere che il figlio, assuma i cognomi dei genitori, nell’ordine dei medesimi concordato, fatto salvo l’accordo alla nascita per attribuire il cognome di uno di loro soltanto. Quindi 1) si attribuiscono entrambi i cognomi; 2) si decide l’ordine dei cognomi; 3) si può attribuire anche soltanto uno dei cognomi purché sia concordemente deciso.

Va anche detto che la materia d’oggi non è ancora normata, e che anche la Corte aveva evidenziato una criticità: infatti, pur evocando implicitamente l’esigenza di preservare la coerenza tra figli di un medesimo genitore, non ha introdotto criteri vincolanti, non essendo previsto che il cognome del primo figlio vincoli quelli successivi, né che il figlio possa essere identificato in modo coerente rispetto ai suoi fratelli; il rischio è che all’interno di una stessa famiglia si generino discontinuità nominative anche di un certo peso pur in presenza di situazioni affettive residenziali stabili, ma ciò finirebbe per compromettere la funzione identificativa del cognome come segno di coesione e appartenenza familiare. 

In caso di disaccordo tra i genitori sull’ordine o su quale dei cognomi attribuire potrà intervenire soltanto il giudice, in coerenza con la tutela del minore. La circolare del ministero dell’interno 14 giugno 2017 numero 7 ha chiarito anche che l’accordo tra i genitori sull’attribuzione del cognome può ritenersi presunta anche quando la dichiarazione è resa da uno solo di essi, senza che sia richiesta una prova formale della volontà dell’altro genitore. L’accordo infatti è considerato elemento presupposto della dichiarazione e non richiede salvo eccezioni una manifestazione espressa congiunta davanti all’ufficiale dello stato civile. La circolare ha anche specificato che le innovazioni interpretative della Corte Costituzionale si applicano agli atti di nascita formati successivamente alla pubblicazione della sentenza mentre eventuali modifiche successive del cognome restano soggette alla procedura autorizzatoria di cui all’articolo 89 del Dpr 396 del 2000. Ulteriore circolare del ministero la numero 63 del 2022, che attuando la sentenza 131 della Corte costituzionale ha chiarito che in assenza di un accordo sia sull’attribuzione del solo cognome di uno dei genitori sia sull’ordine dei cognomi non è consentito all’ufficiale dello Stato civile applicare automatismi o criteri surrogatori.

Infatti la stessa Corte Costituzionale ha escluso che l’amministrazione possa supplire al disaccordo con soluzioni standardizzate, come ad esempio un ordine alfabetico rimettendo ogni decisione al giudice. In questi casi, in casi quindi di dissidio tra i genitori la stessa Corte di Cassazione con l’ordinanza del 30 marzo 2025, numero 8369, ha chiarito che nel caso in cui l’atto di nascita sia stato formato prima della pronuncia della Corte costituzionale del 2022 ogni modifica del cognome presuppone il ricorso alla procedura autorizzatoria dell’articolo 89 del Dpr 396 del 2000, previa valutazione dell’interesse del minore da parte dell’Autorità giudiziaria competente.

Va anche fatta un’ulteriore precisazione, e sul punto si riporta l’ordinanza della Corte di Cassazione del 5 giugno 2024, numero 15654 che ha chiarito il caso in cui la madre di un minore riconosciuto successivamente (non in contemporanea quindi) dal padre, aveva chiesto che fosse attribuito al figlio il solo cognome paterno in sostituzione di quello materno. 

Il tribunale invece aveva disposto l’aggiunta del cognome paterno posponendolo a quello materno e la Corte d’appello aveva confermato tale decisione richiamando però la sentenza del 2022 della Corte costituzionale. La Cassazione accoglieva il ricorso della madre ribadendo che nei casi di riconoscimento non contestuale non opera alcun automatismo e che l’attribuzione del cognome deve venire sulla base del prudente apprezzamento giudiziale, valorizzando l’interesse del minore, quindi la Corte sostiene che in tema di attribuzione del cognome del figlio minore nato fuori dal matrimonio e non riconosciuto contestualmente da ambo i genitori, la decisione giudiziale deve prescindere da qualsiasi automatismo e aver riguardo unicamente ad interesse del figlio valutando l’opinione espressa dal minore stesso e gli altri elementi.

Ultima annotazione per quanto riguarda l’attribuzione del cognome nell’adozione nel caso dei maggiorenni: nel 2023 la Corte costituzionale con la sentenza 135 ha stabilito che è incostituzionale il riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione articolo 299, comma uno, del Codice civile nella parte in cui non consente con la sentenza di adozione di aggiungere anziché di anteporre il cognome dell’adottante a quello dell’adottato maggiore di età, se entrambi nel manifestare il consenso all’adozione si siano espressi a favore di tale effetto, poiché in tale evenienza l’aggiunta può tutelare il diritto all’identità personale dell’adottato e non è irragionevole.

Quindi, come stabilito poi anche dalla Corte di Cassazione, l’adozione di maggiorenni in base a un’interpretazione costituzionalmente orientata e alla luce articolo 8 della CEDU non ha più lo scopo soltanto di assicurare un successore a colui che ne sia privo, ma assume una nuova funzione solidaristica, di riconoscimento giuridico di una relazione sociale affettiva ed identitaria.

(Autore: Avvocato Gabriele Traina) 
(Foto e video: Mihaela Condurache)
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