Gli anni dell’asilo e le gite in cimitero di metà anni ’50 nei ricordi di Piero Gerlin

“Si partiva da casa in sella a una bicicletta Bottecchia con freni a bacchetto di 25 chili”: inizia così il viaggio nei ricordi di Piero Gerlin, che ha frequentato l’asilo di Pieve di Soligo negli anni ’55 – ’56- ’57.

A quei tempi molte cose erano diverse da come le viviamo e le vediamo oggi, a partire dalla sistemazione fisica degli spazi intorno all’edificio: infatti oggi l’ingresso principale si trova a sud e purtroppo le suore non operano più al suo interno.

“All’interno del manubrio della bici – continua Gerlin – era posizionata la “caregheta” in vimini, con due ganci a U muniti di due gancetti in ferro per sicurezza mentre il cestino dei viveri, sempre in vimini, era sul portapacchi posteriore. Arrivata alla salita della chiesa, la mamma scendeva dalla bici e continuava a piedi fino alla curva. L’entrata dell’asilo era in via Cal Santa (ancora da asfaltare) e davanti ai Fornasier si restringeva fino a due metri, poi continuava sulla destra con un muro alto tre metri che delimitava il campo sportivo“.

Per entrare in asilo si teneva alla sinistra la grotta della Madonna e davanti la casa delle suore, la si costeggiava a sinistra e si entrava nel secondo cortile. Sempre a sinistra c’era la sala teatro che fungeva anche da mensa mentre al centro del cortile, verso sud, si poteva vedere la bella chiesetta di Maria Bambina.

Gerlin ricorda che poi si entrava in una grande aula che aveva due funzioni: la mattina si faceva lezione e nel pomeriggio il riposino “Da noi molto odiato, che ci obbligava a coricarci su sdrai in tela al posto di andare a giocare come avremmo voluto”.

Poi c’era il terzo cortile, il più bello perché era quello dei giochi: aveva la ghiaia e in fondo a sinistra c’era la giostra in ferro per eccellenza: “Un cerchio di 4 metri con sopra una decina di seggiolini e sotto le ruote a pedali che scorrevano su una rotaia circolare”.

A sinistra si poteva notare un porticato su cui ondeggiavano su fili di ferro lunghe file di ciripà, i pannolini di una volta, a triangolo, rilavabili e in tela. “Li lavava la sorella Giuseppina – ricorda Piero – quella con i capelli raccolti, perché non era suora quindi aveva i capelli in vista e gli occhiali a mezza luna”.

Circa a mezzogiorno si pranzava con una minestrina o una pastasciutta fatte dalle suore e il secondo i bambini se lo portavano da casa, dentro il cestino. “Ricordo che erano in pochi ad avere un frutto e sorella Giuseppina, con un cucchiaio, raschiava l’interno di qualche buccia di banana per darlo a mo’ di pappa cremosa ai più bisognosi“.

“Ricordo anche il primo giorno quando la mamma mi lasciò, subito mi misi a piangere. Poi un mio amichetto, di un anno più vecchio di nome Italo, mi prese per mano e per incoraggiarmi mi donò un dolcetto”.

In fondo al cortile c’era un grande muro, con un imponente cancello in ferro: lì cominciava l’orto che arrivava fino in via Marconi, dove oggi c’è l’entrata principale. Era vietato entrarci, salvo casi eccezionali: “Siccome sono sempre stato, di nome e di fatto, un Pierino, la mia educatrice, la brava suor Giuseppa, mancata purtroppo giovane, mi chiamava “Argento vivo” e quando non ne poteva più delle mie marachelle mi mandava all’orto, in consegna alla sorella GIuseppina. Questa, munita di aghi di sicurezza, mi infilzava il “traverson” con la sua spilla di sicurezza e lo univa alla sua “tonega” così io ero costretto a seguirla in tutto il suo lavoro” sorride Piero.

Tra tutte le attività che si svolgevano all’asilo, oltre ad ascoltare la classica e intramontabile storia di Pinocchio, Gerlin ricorda che veniva ogni tanto anche la maestra Maroso “che suonava il pianoforte e ci faceva imparare qualche ritornello. Solo ogni tanto le suore ci aprivano il cancelletto e allora andavamo a giocare a calcio al campo Careni”. Durante l’anno i bambini facevano anche un paio di recite al teatro “con le suore dietro le quinte che ci suggerivano” ride Piero.

“Una volta alla settimana, se non pioveva, andavamo tutti in fila per due al cimitero: scendevamo la scalinata e subito a destra facevamo il giro del camposanto vecchio, recitando l’Eterno Riposo fino alla fine del percorso. A circa metà del lato nord c’era una tomba accostata al muro di recinzione con una porta in marmo e due battenti, di cui uno era scostato di circa 10 cm: noi guardavamo sempre dentro la fessura buia perché ci dicevano che quella era la porta per il Paradiso“.

Oggi è stato eliminato, ma nei ricordi di Gerlin è viva l’immagine dell’angolo a nord ovest, dove c’era un recinto, il Limbo, con un cancelletto oltre il quale venivano sepolti i neonati senza battesimo. Sull’entrata a Ovest invece, sulle due colonne, c’erano due lettere greche, alfa e omega (A -Ω) a indicare l’inizio e fine della vita.

Appena dentro l’entrata, a ovest, ci sono due tombe monumentali a onorare i caduti di guerra, poi sull’angolo interno di sud-est si trovavano svariate tombe con angioletti e bandierine di lamiera che giravano al vento: erano dedicate ai bambini morti in tenera età, cosa che al tempo era molto frequente.

“Ricordo anche che andavamo in rappresentanza con il vessillo dell’asilo alle feste nazionali al monumento dei caduti e a certi funerali di qualche famigliare di qualcuno noi” continua Gerlin.

A dicembre poi c’era l’attesissima festa di San Niccolò: il pomeriggio del 5 dicembre usciva dall’abbaino della casa delle suore e dall’alto dava la benedizione a tutti i presenti, poi scendeva in cortile con la sua tunica rossa, la cotta bianca, il pastorale e teneva le mani in guanti bianchi e un grande anello: “Per la nostra gioia distribuiva qualche dolce e caramella. Questa era la nostra infanzia. Quante cose sono cambiate! Magari in meglio, ma noi eravamo lo stesso felici”.

(Foto: per concessione di Piero Gerlin).
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