Dentro la stanza degli Hikikomori: la sfida del “ritiro sociale” giovanile

La pandemia ha rappresentato uno spartiacque. Non ha creato dal nulla il disagio giovanile, ma lo ha reso più visibile, amplificando dinamiche già presenti e facendole emergere con forza. Dopo il Covid, i servizi specialistici, le scuole e il mondo sociale hanno visto un’esplosione di problematiche legate al ritiro sociale e, in alcuni casi, a forme di aggressività. Si tratta di un fenomeno complesso, che richiede una presa in carico tempestiva per evitare conseguenze sul piano educativo, lavorativo e sociale.

“Il Covid non ha inventato il disagio giovanile, ma lo ha reso più evidente e urgente, portando alla luce fragilità che già esistevano”, spiega Nicola Michieletto, psicologo e direttore coordinatore U.O.C. AULSS 2 Marca Trevigiana.

Il ritiro sociale, infatti, non è soltanto un dramma umano: ha costi significativi anche per la collettività. Ragazzi che smettono di andare a scuola, non entrano nel mondo del lavoro e finiscono per dipendere a lungo dai servizi. Prevenzione e intervento precoce diventano quindi non solo una questione sanitaria, ma anche economica e sociale. “Ogni intervento precoce rappresenta un investimento: evita sofferenza ai ragazzi e riduce i costi per la società” sottolinea Michieletto.

Dietro ogni caso, però, ci sono storie di sofferenza profonda. Giovani che scelgono di chiudersi in camera, rifiutando ogni contatto con l’esterno. Gli educatori spesso iniziano il percorso parlando con loro da dietro una porta, cercando di costruire fiducia passo dopo passo. L’obiettivo è portarli gradualmente a relazionarsi di nuovo con gli altri, in contesti sicuri e meno stigmatizzanti: un giardino, una biblioteca, uno spazio neutro. In questo senso, la figura dell’educatore giovane, vicino per età ed esperienze, può fare la differenza più di uno psicologo adulto.

“All’inizio può capitare che l’educatore parli con un ragazzo chiuso in camera, senza neppure vederlo. Sono piccoli passi che servono a ricostruire la fiducia” racconta lo psicologo.

Accanto ai ragazzi, ci sono le famiglie. Molte vivono la situazione con vergogna, sentendosi colpevoli. È fondamentale invece aiutarle a non isolarsi, a condividere esperienze, a capire che non sono sole. Nei distretti territoriali si contano decine di casi, ma i numeri reali sono probabilmente più alti: molti giovani restano invisibili finché non interviene la scuola o la famiglia.

“Non dobbiamo parlare di colpa, perché questo blocca i genitori. Dobbiamo invece sostenerli e metterli in rete, per non lasciarli soli”, osserva Michieletto. Per affrontare il problema, sono state sperimentate nuove strade: una di queste riguarda il lavoro in gruppo, che permette ai ragazzi di confrontarsi con coetanei che vivono esperienze simili. Un altro strumento efficace è la terapia outdoor con gli animali: attraverso la relazione con asini o conigli, i giovani riescono a esprimere emozioni che faticano a comunicare a parole. Gli animali non giudicano e diventano mediatori di fiducia: “Gli animali sono straordinari mediatori: aiutano i ragazzi a esprimere emozioni difficili, senza paura di essere giudicati” spiega Michieletto.

I ragazzi che si ritirano non provengono da contesti marginali. Anzi, spesso sono studenti brillanti o giovani sportivi promettenti che vivono un crollo di autostima dopo un insuccesso scolastico, sportivo o relazionale. L’autostima, legata in modo eccessivo alla prestazione, crolla al primo ostacolo. Allo stesso modo, una delusione sentimentale può trasformarsi in un trauma insuperabile. Dietro le capacità cognitive e le performance elevate si nasconde spesso una fragilità emotiva profonda.

“Sono spesso ragazzi che hanno sempre avuto risultati brillanti. Proprio per questo il fallimento diventa insopportabile e li fa crollare” chiarisce il direttore.

Riconoscere i segnali precoci è essenziale: un ragazzo che smette improvvisamente di uscire, che perde interesse per attività prima importanti, che interrompe relazioni o che cambia radicalmente abitudini va osservato con attenzione. Non bisogna allarmarsi subito, ma neppure sottovalutare. Serve equilibrio: vicinanza senza invadenza, attenzione senza colpevolizzazione. E quando la situazione diventa seria, è necessario avere il coraggio di chiedere aiuto ai servizi.

“I segnali non vanno sottovalutati: serve la capacità di osservare e il coraggio di intervenire quando la situazione si aggrava”, avverte Michieletto. Il fenomeno riguarda sia maschi che femmine. Nei ragazzi pesa spesso il legame tra autostima e prestazione, nelle ragazze la vulnerabilità legata all’immagine corporea e alle relazioni affettive. In entrambi i casi, i social giocano un ruolo decisivo: amplificano fragilità, alimentano confronti, creano dipendenze e, talvolta, aprono le porte a rischi gravi come pedopornografia o gioco d’azzardo online.

“I social sono lo specchio principale di questi ragazzi, più dei genitori e persino dei pari. Ma in quello specchio si nascondono anche rischi enormi” spiega lo psicologo.

Di fronte a questa realtà, non basta puntare il dito sui giovani. La società adulta deve interrogarsi: quanto influiscono i modelli genitoriali, le pressioni legate al successo, la mancanza di empatia o di reti di sostegno? Non servono colpe, ma nuove responsabilità condivise. “Dobbiamo chiederci quanto il nostro modello educativo e sociale influisca su queste fragilità. Non possiamo delegare tutto ai ragazzi” commenta Michieletto.

Il lavoro con i ragazzi non può prescindere da quello con le famiglie. Senza un percorso parallelo, il rischio è che i progressi fatti in terapia vengano annullati da dinamiche domestiche consolidate. Per questo è nato anche il progetto “Genitoriamo”, che ha messo in rete scuole, comuni e genitori, creando spazi di confronto e sostegno reciproco.

“Non esiste un trattamento dei ragazzi senza la presa in carico delle famiglie. È un percorso che va fatto insieme” ribadisce Michieletto.

L’obiettivo ora è costruire un osservatorio permanente: un luogo di incontro tra scuola, sanità, enti locali e associazionismo per condividere dati, osservazioni e strategie. Non si tratta di analizzare singoli casi, ma di leggere i fenomeni e progettare interventi comuni, capaci di anticipare i problemi e prevenire situazioni di isolamento estremo.

“Con l’osservatorio vogliamo leggere i fenomeni insieme e progettare risposte comuni, per prevenire invece che inseguire” conclude il direttore. Il ritiro sociale non è una condanna irreversibile. È un segnale che chiede ascolto, collaborazione e coraggio da parte di tutti: famiglie, servizi, comunità. Perché prevenire, accompagnare e reinserire significa restituire futuro a chi rischia di perderlo.

(Autrice: Mihaela Condurache)
(Video e Foto: Mihaela Condurache)
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