Valburga Posarelli, la “dottora” che ha cambiato la sanità di Refrontolo

Tra le figure che hanno segnato la storia recente di Refrontolo, il nome di Valburga Posarelli Perin occupa un posto speciale. Nata nel 1913 e scomparsa nel 1978, è stata il primo medico donna ad esercitare nel paese, una presenza che gli abitanti ricordano ancora oggi semplicemente come “la dottora”. Per 17 anni, dopo una prima esperienza ad Alano di Piave, ha seguito la comunità con una dedizione costante, unendo attenzione ai pazienti e carattere deciso, soprattutto con chi non rispettava le cure o trascurava la propria salute.

A raccontarne la storia è uno dei suoi cinque figli, Giuseppe Perin, profondo conoscitore della memoria locale, affiancato dalla moglie Lucia Antoniazzi, anima del Circolo Culturale Arcobaleno di Refrontolo. «Quando sento parlare di emancipazione, penso a mia mamma, che è stata in grado di realizzare tutto quello che ha voluto», ricorda Giuseppe, sintetizzando il percorso di una donna che, in anni difficili e pieni di pregiudizi, è riuscita a costruirsi una carriera e un ruolo pubblico riconosciuto.

Il suo arrivo a Refrontolo avviene dopo la lunga stagione professionale del dottor Giovanni Corradini, medico condotto e ostetrico in paese per quarant’anni. Corradini era figlio di Giuseppe Corradini, sindaco durante la Grande Guerra, e apparteneva a una famiglia benestante, originaria di Miane, proprietaria di numerosi terreni e del monte Croce con l’area sottostante, dove nel 1908 fu completata villa Corradini, tuttora esistente. Subentrare a un medico così radicato significava affrontare non solo una responsabilità clinica, ma anche un’eredità sociale importante.

Le radici di Valburga si trovano però altrove. Nasce a Trieste, da una famiglia originaria di Canale d’Isonzo, ed è di madrelingua slovena. Il suo nome richiama una santa del Settecento, badessa del monastero tedesco di Heidenheim, mentre il cognome originario era Podcrasnik, trasformato nel 1928 in Posarelli nell’ambito delle italianizzazioni dell’epoca, dietro compenso dello Stato. Figlia di una levatrice e di un sottufficiale, perde il padre a soli sei anni. La madre decide allora di iscrivere lei e il fratello a un collegio per orfani di guerra, garantendo loro un percorso di studi gratuito: è lì che, a dieci anni, Valburga impara l’italiano e ottiene in seguito il diploma magistrale.

Dopo aver insegnato per un anno in una località montana della provincia di Udine e aver completato, da privatista, gli studi necessari, sceglie la strada della medicina. Si iscrive alla Facoltà di Medicina e Chirurgia di Padova e nel 1938 si laurea, per poi conseguire nel 1942 la specializzazione in Pediatria, sempre nell’ateneo patavino. Sono anni in cui le donne laureate in medicina sono pochissime: secondo il racconto del figlio, Valburga era una delle prime quattro o cinque donne in Italia a laurearsi in quella disciplina e secondo ufficiale sanitario del Paese.

Nel 1938 sposa il farmacista Roberto Perin, con cui costruisce una famiglia numerosa, composta da cinque figli. Durante l’occupazione nazista, la coppia offre assistenza ai partigiani rifugiati sul massiccio del Grappa, impossibilitati a scendere a valle per il rischio di rastrellamenti. È un impegno silenzioso e rischioso, che unisce competenza professionale e coraggio civile, e che contribuisce a definire l’immagine di una donna abituata ad affrontare le difficoltà senza arretrare.

Nel 1955 Valburga vince il concorso per ufficiale sanitario a Refrontolo, subentrando al posto lasciato vacante dal dottor Corradini, in pensione dal 1952. Nonostante questo, l’accoglienza iniziale non è delle più semplici: l’intero consiglio comunale si oppone alla sua nomina e sarà necessario un decreto del prefetto per confermarla nell’incarico. I motivi di questa resistenza sono legati al tempo in cui vive: l’idea di un medico donna, per di più con cinque figli, spaventa molti. Inoltre, i borghi sparsi in campagna e le strade difficili da percorrere rendono il lavoro di un sanitario particolarmente impegnativo. Eppure, niente di tutto questo riesce a fermare la “dottora”.

La sua giornata tipo è un piccolo manifesto di dedizione. «Mia madre si spostava per somministrare i vaccini. Per un periodo ha lavorato come pediatra anche a Rua di Feletto, Pieve di Soligo, Cison di Valmarino, Follina e Miane», ricorda Giuseppe. L’ambulatorio, situato per qualche tempo a villa Spada, apriva alle 7.30. Verso le 10.30 rientrava brevemente a casa per controllare la posta, poi ripartiva per le visite a domicilio fino alle 13. Il pomeriggio, dalle 14, era dedicato ai consultori del territorio e ad altre visite, spesso fino alle 19.30.

La giornata non finiva con il tramonto. Valburga non andava mai a letto prima delle 23–23.30, perché restava in attesa di possibili chiamate dai pazienti. Nel frattempo compilava a mano i moduli delle visite, che portava periodicamente alla mutua di Treviso, dove veniva retribuita in base al numero di consulti effettuati. L’ambulatorio era aperto anche la domenica, finché un decreto prefettizio non impose la chiusura festiva. Fino al 1965 non si concesse un solo giorno di ferie.

Oltre all’attività ambulatoriale e domiciliare, Valburga fu tra le prime a introdurre una forma di medicina scolastica: una volta all’anno visitava i bambini nelle scuole, per assicurarsi che fossero tutti in buona salute. «Era una donna energica e combattiva – ricordano Giuseppe Perin e Lucia Antoniazzi – e dai suoi pazienti esigeva la puntualità, visti i ritmi serrati di lavoro». Non mancava però un lato più tenero, soprattutto con i più piccoli: viaggiava sempre con un grande sacchetto di caramelle da distribuire ai bambini e spesso forniva gratuitamente le medicine a chi ne aveva bisogno.

«Era dura la vita per i medici di allora, ma lei aveva carattere, altrimenti non sarebbe arrivata dove è arrivata», sottolineano ancora i familiari. La dottoressa Valburga Posarelli Perin muore il 23 aprile 1978 all’ospedale di Pieve di Soligo, dopo aver continuato a svolgere la professione finché le forze glielo hanno permesso. Oggi la comunità di Refrontolo la ricorda con affetto, tra aneddoti e memorie tramandate, e una lapide nell’atrio del municipio ne onora la «solerzia infaticabile» e la «amorevole e diligente cura» prestata alla popolazione.

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