Chi arriva oggi a Vittorio Veneto e percorre la zona del Meschio, poco distante dalla Pieve di Sant’Andrea, vede un grande complesso industriale silenzioso, affacciato sul fiume. È l’ex cementificio Italcementi, un manufatto dismesso che racconta una storia lunga centocinquant’anni, iniziata nel 1858 e conclusa definitivamente nel 2008, quando anche le ultime attività di deposito e confezionamento del cemento sono state interrotte.
Per capire perché proprio qui sia nata una delle industrie più importanti del Veneto bisogna guardare alle colline che circondano la città. Nella seconda metà dell’Ottocento il giovane ingegnere francese Giovanni Battista Croce viene incaricato, per conto di una società che lavora alle ferrovie del Lombardo-Veneto, di individuare il luogo ideale per una fabbrica di calce idraulica, materiale fondamentale per ponti, fortificazioni e opere pubbliche. La scelta cade su Vittorio Veneto perché le sue alture sono ricche di marna, una roccia composta da calcare, argilla e silicati di calcio, perfetta come base per questo tipo di legante capace di indurire anche a contatto con l’acqua.
Nel 1858 Croce avvia lo stabilimento come direttore. Passano pochi anni e la sua presenza in città diventa stabile: prende in a<itto la fabbrica, si mette in proprio e, nel 1870, la acquista definitivamente. La produzione di calce idraulica cresce e con essa l’occupazione, fino a circa 150 addetti. Accanto al cuore dell’attività si sviluppa un piccolo mondo di manufatti in laterizio: piastrelle, tubi per condotte idrauliche e altri elementi realizzati sfruttando gli scarti della lavorazione, testimonianza di un’economia che cerca di non sprecare nulla.
Nel 1878 compare la concorrenza. Le ditte Bonaldi e Balliana insediano un nuovo stabilimento di calce idraulica nella stretta di Serravalle, alle spalle del duomo, sempre lungo il Meschio. La loro intuizione è semplice e geniale: scavare il colle di Sant’Augusta e collocare l’officina proprio ai suoi piedi, riducendo al minimo il trasporto del materiale estratto. Pochi anni dopo entra in scena la Società italiana della calce idraulica e dei cementi di Bergamo, che acquista gli impianti serravallesi e avvia una produzione su larga scala, sostenuta da capitali importanti. Negli ultimi decenni dell’Ottocento i cementifici vittoriesi diventano così una delle industrie di punta del territorio, fornendo calce e poi cemento per buona parte delle opere pubbliche del Veneto, dalle ferrovie alle caserme, fino agli argini dei fiumi.
Nel frattempo la società bergamasca passa sotto il controllo della famiglia Pesenti e assume il nome di Italcementi, che resterà legato a Vittorio Veneto per tutto il Novecento. La tecnologia evolve e, con essa, anche il prodotto. La marna delle colline resta la base, ma si passa gradualmente dalla calce idraulica al cemento vero e proprio. La differenza sta nelle temperature di cottura: per la calce servono forni che raggiungono i mille gradi, per il cemento occorrono impianti capaci di arrivare fino a 1.400–1.500 gradi. È l’installazione di queste fornaci più moderne a segnare il salto di qualità dell’industria locale.
La produzione comincia in cava, in diversi punti del territorio vittoriese. La prima si trova dietro il colle di San Paolo, nella zona di Costa; la più importante è però in cima al Monte Pizzoc. Da lassù, all’inizio del Novecento, viene costruita una teleferica di circa sei chilometri, sostenuta da una cinquantina di piloni, alcuni dei quali sono ancora oggi riconoscibili tra boschi e pendii. I vagoncini carichi di marna scendevano a valle lungo il cavo fino alla fabbrica sul Meschio, dove la roccia veniva frantumata, macinata, omogeneizzata, cotta e ridotta in polvere finissima, pronta per essere insaccata e spedita.
Il collegamento con il resto d’Italia passava soprattutto dalla ferrovia. Fino al 1925 un raccordo ferroviario univa direttamente lo stabilimento Italcementi alla stazione di Vittorio Veneto, permettendo di caricare i vagoni quasi a ridosso dei forni. Accanto ai binari, nei pressi dello scalo, erano stati costruiti numerosi depositi per l’immagazzinamento del cemento in attesa della distribuzione, sia verso altre regioni italiane sia verso l’estero.
L’attività produttiva vera e propria prosegue nello stabilimento vittoriese fino al 1972. Da quel momento la fabbrica continua a vivere per altri trent’anni come centro di stoccaggio e confezionamento di cemento proveniente da altri impianti del gruppo Italcementi, fino alla chiusura definitiva del 2008. Oggi, chi percorre la zona del vecchio cementificio vede un grande edificio industriale abbandonato, sospeso tra memoria e futuro. Il suo destino è affidato alle scelte dei proprietari e all’attenzione di chi immagina lo sviluppo urbanistico della città, in un dialogo costante tra tutela della storia industriale e nuove funzioni possibili.
Per chi esplora Vittorio Veneto con lo sguardo di una guida locale, questa storia aiuta a leggere in modo diverso il paesaggio: le cave del Pizzoc, i segni della teleferica, il corso del Meschio e il volume severo del vecchio stabilimento non sono solo quinte sceniche, ma tracce concrete di un’industria che per oltre un secolo e mezzo ha contribuito a modellare la città e il territorio circostante.
(Autore: Redazione di Qdpnews.it)
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