Quando il marketing ci fa lo sgambetto

Marketing e pubblicità ci fanno desiderare beni e servizi, ma per fare acquisti consapevoli e ragionati, occorre fare qualche riflessione sulle parole che spesso vengono usate per influenzarci nelle scelte: se le riconosciamo, saremo un po’ più attenti e razionali.

Sappiamo tutti che la pubblicità spesso esagera, racconta bugie e utilizza video, immagini e parole per colpire la nostra emotività e spingerci all’acquisto. Tuttavia, fa parte di questa società e, volenti o nolenti, dobbiamo conviverci. Il potere influenzante ha come fulcro il funzionamento della mente umana che sottoposta a certi stimoli produce azioni, a volte azionali, a volte istintive, inconsce.

È proprio su questo fattore che lavorano alcuni stimoli: l’azione nasce da un desiderio, da un’emozione; l’emozione spesso è generato da un’immagine, tipo foto o video. E se non ci sono foto o video? Non importa, l’immagine si genera anche in seguito ad una frase o una parola detta dal venditore: parliamo di “immagini mentali”. E la visualizzazione mentale predilige immagini concrete, facilmente visualizzabili.

Se vi dicessi “Non pensate alle scimmie”, probabilmente nella mente vi apparirà proprio una scimmia, anche se la mia indicazione voleva l’opposto. Perché? Le parole “non” “pensate” “alle” non danno immagini. La parola “scimmie”, invece, sì. Se poi, per esempio, voi aveste repulsione verso le scimmie, oltre all’immagine avvertireste anche un senso di fastidio: ecco l’emozione. Il marketing conosce bene questi meccanismi e ci spinge molto.

Oggi vorrei farvi notare qualche esempio, ma con risvolti divertenti, cercando di razionalizzare al massimo frasi e parole. Quindi seguitemi al … ristorante e analizziamo alcune frasi classiche utilizzate per influenzarci maggiormente o dare maggior valore al cibo, anzi al “food” che ordiniamo (Visto? Ho usato “food”, fa più chic; dire “cibo” è fuori moda, da antiquati). “Abbiamo … il Maccherone al sugo di … la Tagliatella … lo Spaghetto …”. Usare il singolare dà più l’idea di unicità, di prodotto che emerge dai classici maccheroni o spaghetti. “Ecco a lei il Pane del Forno Pacelli”. Pane e basta non rende, bisogna mettere il nome del forno, dà più prestigio. Chi sia poi Pacelli, non importa e probabilmente non lo conosce nessuno. “Questo è il vino del contadino qui vicino, a km 0”. Ma questo contadino è capace o no di fare bene il vino? Seguirà tutti i protocolli di lavorazione e di igiene? Nessuno se lo chiede, ma la percezione è che sia puro, incontaminato, senza sostanze nocive. Chi lo certifica? Lui stesso, il contadino. “Tutti questi dolci sono fatti in casa”. Bene, speriamo che la nonna sia brava a fare le torte, ma fatto in casa non è sinonimo di qualità: che ingredienti ha utilizzato? di quale qualità? e … l’igiene? Speriamo.

Sono esempi semplici, ironici, ma fanno capire come le immagini mentali agiscano sui nostri comportamenti d’acquisto. L’importanza evocata dal nome o dalla situazione può moltiplicare il prezzo di un bene a livelli impensabili, fuori da ogni logica. Lo sapete qual è il prodotto, venduto al supermercato, che ha un prezzo di circa 200/250 volte superiore al suo concorrente, pressoché identico, sempre sullo stesso scaffale? Il sale. Sì, proprio il sale da cucina. In qualsiasi supermercato si può acquistare sale grosso a 30 centesimi al chilo.

Eppure, sul mercato esistono:

– il Sale rosa dell’Himalaya posizionato come “puro e naturale”;

– il Fiore di Sale di Trapani venduto in barattolo elegante, con marchio premium;

– il Fleur de Sel a oltre 80 euro/chilo.

Cosa cambia? La percezione, un nome accattivante, l’immagine evocativa, un packaging curato, un linguaggio differente: “esattamente come la natura l’ha creato”. Ora vi saluto, vado a comprare l ‘”Acqua Vellamo, dai ghiacciai finlandesi” (10 euro/litro).

(Autore: Sistema Ratio – di Eros Tugnoli)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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