Modi di dire: salvarsi per il rotto della cuffia
Nel duomo di Portobuffolé, piccolo comune trevigiano attraversato dal fiume Livenza, sul settecentesco organo del maestro Gaetano Callido, si può ammirare lo stemma cittadino intagliato nel legno. Si tratta di un blasone particolarmente elaborato che ritroviamo anche su Porta Friuli e sulla facciata della cinquecentesca Casa Comunale: a renderlo inconfondibile è soprattutto l’insolito “elmo in ferro insignito da piume di struzzo” che sovrasta la croce e i gigli d’oro. La raffinatezza dell’emblema è una conseguenza della fedeltà dimostrata dagli abitanti di Portobuffolé nei confronti di Venezia che, per ricompensare la città, le concesse il privilegio di fregiarsi di un’insegna gentilizia decisamente sfarzosa.
Stemma di Portobuffolé
Il cimiero, nel caso di Portobuffolè le svolazzanti piume di struzzo, insieme allo scudo e all’elmo, dopo l’anno Mille assunsero un potente ruolo simbolico. La funzione del cimiero, realizzato con piume, corna, cuoio o legno ed esibito in occasione di giostre e tornei cavallereschi piuttosto che sul campo di battaglia, era quella di difendere il cavaliere dalla cattiva sorte e incutere terrore nell’avversario. Una maschera utile anche a ostentare l’appartenenza a una stirpe nobile e guerriera, spesso collegata a personaggi leggendari come Goffredo di Buglione il quale, si narra, fosse riconoscibile a distanza per il cimiero fatto con candide penne di cigno.
Fra il Duecento e il Quattrocento il torneo a squadre e la giostra con due contendenti conobbero la loro massima popolarità. Si trattava di sfide utili a mantenere in esercizio i cavalieri, risolvere sul campo varie controversie, mostrare abilità ed esibire ricchezza, elementi essenziali per conquistare il favore delle dame. Queste gare di destrezza, dalle quali sono derivate altre tipologie di competizioni equestri come la quintana e il carosello, suscitano ancora oggi grande passione e calorosa partecipazione popolare: basti pensare alla Giostra del Saracino di Arezzo, alla Quintana di Ascoli Piceno o alla Giostra cavalleresca di Sulmona.
Una delle più caratteristiche prove di abilità delle giostre medievali consisteva nel centrare, lancia in resta, un fantoccio provvisto di meccanismo a molla senza essere abbattuti dalla subitanea rotazione del simulacro. Una dimostrazione di coraggio ed esperienza dalla quale, alcuni cavalieri, uscivano indenni per un soffio: e quando il fantoccio schiantava l’elmo del giostrante senza riuscire a disarcionarlo si usava dire che questi se l’era “cavata per il rotto della cuffia”, cioè si era salvato nonostante la lacerazione dell’imbottitura in cuoio del copricapo.
Un modo di dire che, ancora oggi, stigmatizza il superamento in extremis di una prova. Se la cavano per il rotto della cuffia lo studente promosso grazie alla clemenza della commissione, il guidatore distratto che evita lo scontro per un pelo e il ritardatario che riesce a imbarcarsi sul traghetto all’ultimo minuto.
Secondo altre fonti, fermo restando l’identico significato della locuzione, la cuffia in questione non è una componente dell’elmo, ma una parte della cinta muraria che, danneggiata, consente il disagevole passaggio di uomini e animali costretti a divincolarsi nella strettoia per venirne fuori.
Infine, associando la cuffia con la parte della placenta che avvolge la testa del neonato, vi sono coloro che sostengono come la popolare espressione abbia a che fare con il provvidenziale strappo dal quale il bimbo fuoriesce “cavandosela per un pelo” e con tutti i vantaggi di chi “nasce con la camicia”.
Quale che sia la vera origine dell’espressione, resta il fatto che per salvarsi per il rotto della cuffia, insieme all’audacia, serve una buona dose di fortuna, la stessa sulla quale confidava il gentiluomo medievale lanciato nella sfrenata cavalcata contro l’avversario, vero o fittizio. E a proposito di cavalli e di fortuna, il premio Nobel William Faulkner sosteneva: “Quando il mio cavallo sta correndo bene, non mi fermo per dargli lo zuccherino”.
(Autore: Marcello Marzani)
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