Sostenibilità senza conservazione? Il paradosso delle aree protette

Due cervi investiti in 24 ore: il paradosso di Candaten nel Parco delle Dolomiti Bellunesi.

Da più di trent’anni il cervo rappresenta un “problema” nazionale. Lo dicono gli agricoltori che vedono devastati i raccolti, lo ripetono gli amministratori locali alle prese con incidenti stradali sempre più frequenti, lo confermano i dati sugli impatti con i veicoli che crescono anno dopo anno. La convivenza con questa specie si è trasformata in una questione complessa che alimenta conflitti tra uomo e fauna, dividendo comunità e generando contrapposizioni spesso sterili.

Ma se esiste un luogo dove questi conflitti dovrebbero essere attenuati, gestiti, risolti con strumenti innovativi, quel luogo sono proprio le aree protette. Nei Parchi Nazionali, dove la conservazione della natura è il mandato primario e dove si dovrebbero concentrare risorse, competenze scientifiche e capacità di pianificazione, gli impatti dovrebbero essere prevenuti attraverso strategie concrete. È proprio qui che dovremmo trovare le risposte più avanzate, i modelli replicabili, le soluzioni che poi possono essere esportate nei territori limitrofi.

Invece, il rettilineo di Candaten, nel Comune di Sedico, racconta una storia opposta. Due cervi travolti in ventiquattr’ore, nel centro del Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, automobilisti sotto shock, lamiere accartocciate e il solito ritornello: “Era inevitabile”. Ma c’è qualcosa di profondamente sbagliato quando la carneficina da anni si continua a consumare proprio nel cuore di un’area protetta, in quel luogo che dovrebbe rappresentare l’avanguardia della conservazione, il laboratorio dove sperimentare soluzioni, non il palcoscenico di tragedie annunciate.

Il mandato tradito delle aree protette

Le aree protette nascono con una missione precisa: conservare la natura, tutelare le specie, applicare e provare soluzioni di convivenza tra uomo e fauna. Non sono riserve folkloristiche dove organizzare sagre paesane o eventi “paranaturalistici” per attrarre turisti domenicali. Sono luoghi dove la scienza dovrebbe guidare ogni decisione, dove si testano misure innovative, dove la convivenza tra uomo e fauna diventa possibile proprio perché qualcuno ha il coraggio di investire in soluzioni vere.

Il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi è patrimonio UNESCO, scrigno di biodiversità tra i più preziosi d’Europa. Eppure, in questo scrigno, i cervi continuano a morire sull’asfalto come se fossimo negli anni Ottanta, quando il problema era appena emerso e nessuno sapeva come affrontarlo. Ma oggi? Oggi siamo nel 2025, e quelle soluzioni esistono. Sono state testate, funzionano, sono replicabili. Servono solo volontà politica e risorse dedicate.

Quarant’anni di incidenti: una storia che si ripete

I primi dati sugli incidenti stradali con gli ungulati risalgono a oltre quarant’anni fa, quando il fenomeno ha cominciato a manifestarsi con una certa frequenza. All’inizio erano episodi sporadici, quasi curiosità. Poi, con l’espansione delle popolazioni, il problema è cresciuto in maniera esponenziale.

Erano gli anni Novanta quando un funzionario della Provincia di Belluno mostrava, con un misto di orgoglio e preoccupazione, la raccolta dati degli attraversamenti dei cervi sulla rete viaria provinciale. Già allora si capiva che il problema non era passeggero, che serviva programmazione. Eppure, a distanza di tre decenni, quei dati sono rimasti per lo più confinati nei cassetti degli uffici, senza tradursi in interventi strutturali.

E qui emerge una questione etica fondamentale: quello che un tempo poteva essere considerato “male naturale” – un evento sfortunato, imprevedibile, fuori dal controllo umano – si è trasformato in “male morale”. La mortalità della fauna selvatica sulle strade delle aree protette non è più un incidente del destino: è il risultato diretto di scelte gestionali, di priorità politiche, di un’inerzia che, alla luce delle conoscenze e delle tecnologie disponibili, diventa responsabilità. Abbiamo i dati, abbiamo le soluzioni, abbiamo le risorse. Se i cervi continuano a morire, non è per sfortuna: è per colpa nostra.

Quarant’anni sono un tempo più che sufficiente per comprendere il fenomeno e costruire risposte adeguate: sottopassi o sovrappassi faunistici, barriere intelligenti, monitoraggio dei movimenti degli animali con tecnologie moderne e gestione adattativa del traffico. Eppure, lungo il rettilineo di Candaten, la risposta è ancora la stessa: qualche lampeggiante e tanta rassegnazione.

Il bramito che unisce, la strada che divide

Chi ha sentito il bramito del cervo in autunno sa che è un’esperienza che non si dimentica. Quel richiamo ancestrale, potente e malinconico, che risuona tra le valli al crepuscolo, emoziona le scolaresche in gita come gli escursionisti più esperti. È uno dei momenti più intensi che la natura alpina possa offrire, un legame diretto con il selvatico che ci ricorda quanto sia preziosa la biodiversità.

Ma quello stesso cervo che ci regala emozioni indimenticabili durante il periodo degli amori, rischia la vita ogni notte attraversando una strada dove nessuno ha previsto un passaggio sicuro. È un controsenso insopportabile: da una parte celebriamo la fauna come attrattiva turistica ed educativa, dall’altra permettiamo che venga falciata sull’asfalto per incuria gestionale.

Se non qui, dove?

La domanda sorge spontanea: se non in un Parco Nazionale, dove dovremmo trovare soluzioni concrete per salvare cervi e automobilisti? Se non in un’area protetta, chi dovrebbe farsi carico di sperimentare modelli virtuosi di coesistenza? Le aree protette non sono musei all’aperto dove contemplare passivamente esteticamente la natura. Sono laboratori viventi, luoghi dove la conservazione si fa pratica quotidiana, dove si investe in ricerca, monitoraggio, prevenzione.

Esistono tecnologie ormai consolidate: barriere permeabili che guidano gli animali verso sottopassi o sovrappassi faunistici, sistemi di rilevamento che attivano segnalazioni luminose al passaggio della fauna, limitatori di velocità intelligenti nelle fasce orarie critiche. Esistono esperienze di successo, non da copiare pedissequamente ma da adattare secondo le logiche biotiche e abiotiche locali – considerando i movimenti stagionali della fauna, la morfologia del territorio, le condizioni climatiche specifiche. Bastano risorse dedicate e una visione di lungo periodo.

Invece, lungo il rettilineo di Candaten, la scena si ripete identica: un tonfo nella notte, un corpo sull’asfalto, un’auto distrutta, un automobilista traumatizzato. E la mattina dopo, lo stesso appello inascoltato: “Quanti ancora prima che si intervenga?”

Una responsabilità collettiva

Non si tratta solo di proteggere i cervi. Si tratta di proteggere le persone, di garantire la sicurezza stradale, di preservare un patrimonio naturale che appartiene a tutti. Si tratta di rispettare il mandato di un Parco Nazionale, che non può limitarsi a stampare depliant turistici mentre la fauna muore nel centro del suo territorio.

Ma c’è anche una questione più profonda, quella della sostenibilità stessa delle aree protette. Come può definirsi sostenibile un’area protetta che non è in grado di conservare le popolazioni selvatiche che ospita? La sostenibilità non è solo un concetto economico o turistico: è innanzitutto ecologica. Un Parco che assiste impotente alla morte sistematica della fauna lungo le proprie strade tradisce la propria ragione d’essere. Non si può parlare di gestione sostenibile quando la risorsa principale – la biodiversità – viene erosa giorno dopo giorno dall’inerzia gestionale.

La convivenza tra uomo e natura è possibile, ma richiede pianificazione, investimenti e serietà. Finché continueremo a considerare questi incidenti come “inevitabili”, finché risponderemo con palliativi invece che con progetti strutturali, alcune delle nostre Aree Protette più preziose rimarranno un paradosso: luoghi dove la conservazione è solo sulla carta, e la natura continua a pagare il prezzo più alto.

(Autore: Paola Peresin)
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