Mentre scrivo ci sono ancora navi di grano e varie granaglie ferme nei porti dell’Ucraina, in attesa di giungere a destinazione prima che il carico marcisca.
L’Europa sta pensando ad alternative ferroviarie che appaiono alquanto complicate. Il vero tesoro ucraino rappresentato dalla produzione agricola sta già rischiando devastazioni e serie difficoltà per la prossima mietitura.
Così un conflitto, già di per sé assurdo, avrà gravi conseguenze sull’approvvigionamento mondiale di prodotti che sono alla base non solo dell’alimentazione umana, ma anche della filiera animale.
Non sembrano esserci gravi problemi per l’import italiano di questi prodotti, poiché rappresenta quote limitate: importiamo grano dalla Russia per l’1,24% del nostro consumo e lo 0,7% dall’Ucraina. Se si pensa poi che in 10 anni, dal 2010 al 2020, il consumo di pasta in Italia è raddoppiato passando da 9 milioni di tonnellate a oltre 17, mantenendo invariata la quota di import da quei 2 Paesi, si può stare sufficientemente tranquilli sulla continuità produttiva di pasta italiana che esportiamo in tutto il mondo, pari al 62% della produzione domestica.
Molto del grano importato arriva dalla Francia (11%), ma il problema non è tanto l’approvvigionamento o anche l’aumento dei prezzi che i Paesi ricchi possono anche essere in grado di assorbire. Il problema, su più larga scala, riguarda tutti quei Paesi che hanno un indice di dipendenza dai cereali russo/ucraini molto alto. Parliamo di Egitto, Tunisia, Indonesia, Armenia, Libia, Yemen, Libano, Pakistan e di altri Paesi africani e asiatici e anche sudamericani che ospitano popolazioni già al limite della fame e, per quote, al di sotto. Mentre i due Paesi più popolosi, Cina e India, quasi raggiungono l’autosufficienza, c’è una vasta parte di mondo, la più povera, che subirà le conseguenze di una guerra lontana e, come tutte le guerre, incomprensibile ai più.
Non è che, però, possiamo stare tranquilli se vogliamo mantenere il ruolo di maggior produttore (e consumatore) di pasta mondiale. L’incremento di consumo, dovuto anche ai 2 anni di pandemia che ci ha costretti a improvvisarci chef casalinghi, e la distribuzione mondiale della produzione della materia prima suggeriscono delle riflessioni anche sui nostri assetti agricoli.
Ci sono 4 milioni di ettari incolti in Italia a causa anche di decisioni europee che costituiscono una bella riserva di immaginazione. Ho sentito che qualcuno a Dubai, in occasione dell’esposizione mondiale, indicava per l’Italia agricola una vocazione totalmente biologica come forma di specializzazione all’interno della divisione del lavoro globale. Indicazione interessante, poiché già il biologico è adottato per il 37% della produzione agricola e l’Italia, anche per ricchezza di varietà, si presta molto alla diversificazione all’interno di una scelta bio generalizzata. Se non al 100%, un aumento della quota di biologico mi sembra sia nel sentimento e già nelle scelte per il futuro dei produttori nostrani. Come anche il Vinitaly, passando ad altro prodotto, ha dimostrato.
Leggevo che anche un colosso come Barilla ha compiuto scelte interessanti in questa direzione con i contratti di filiera e anche sul lato sostenibilità, eliminando 15.000 Tir dalle strade con i nuovi collegamenti ferroviari diretti.
Sì, nel mondo ricco questi ragionamenti si possono fare. Ma quei popoli che aspettano le navi ucraine e russe? Non ho grandi soluzioni, ma mi torna in mente il passaggio rapido che alcuni Paesi, come l’Irlanda, hanno compiuto da produzione agricola e vetero-industriale a informatica e servizi avanzati, saltando alcuni stadi di sviluppo. In quei Paesi occorre esportare, oltre al grano, anche conoscenza. E, magari, anche pace.
(Autore: Anselmo Castelli – Sistema Ratio Centro Studi Castelli).
(Foto: web).