Pinocchio, il Gatto e la Volpe, prima di raggiungere il Campo dei miracoli, fecero una sosta all’Osteria del Gambero Rosso. Qui l’avido felino, sebbene indisposto, divorò trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro porzioni di trippa alla parmigiana.
Apprezzata sin dall’antichità per la delicatezza delle sue carni, la triglia per i Romani era un cibo costosissimo ed elitario. Seneca racconta di un pesce venduto alla strabiliante cifra di cinquemila sesterzi e Giovenale ammonisce “di non bramare la triglia se nel borsellino si ha soltanto un ghiozzo”.
Protagonista della nostra cucina di mare e regina delle tavole degli ebrei sefarditi, la triglia ha ispirato pittori, poeti e ha dato luogo a un curioso modo di dire: fare l’occhio di triglia, secondo il vocabolario Treccani, equivale a “guardare languidamente una persona o una cosa che si desideri avere”. Qualcosa di diverso dallo sguardo da pesce lesso, inespressivo, che denota smarrimento e in qualche caso ottusità.
Chi è innamorato e sogna a occhi aperti, sovente senza rendersene conto, assume un’espressione stralunata, svenevole, simile a quella del pesce adagiato sul banco del pescivendolo che, con il trascorrere delle ore, perde di vivacità e vitalità. Chi avesse ancora dubbi sulla veridicità della locuzione può contemplare le innumerevoli “nature morte con triglie” nelle quali i Mullidi (questo il nome scientifico della famiglia che raggruppa circa ottanta specie di triglie) giacciono riversi con uno sguardo inconfondibile.
A Venezia, da sempre attenta a salvaguardare il patrimonio ittico lagunare, la triglia trova spazio in diverse lapidi collocate nei pressi dei mercati del pesce (pescarie): a Rialto o in Campo Santa Margherita, ad esempio, si apprende che la misura per la commercializzazione del barbon (triglia di fango) o della tria (triglia di scoglio) non poteva essere inferiore ai sette centimetri.
Essere affascinante in grado di sedurre un poeta del calibro di Eugenio Montale che, rivolgendosi alla misteriosa Dora Markus, scrisse: “le tue parole iridavano come scaglie della triglia moribonda” il barbon, per la propria reputazione di cibo esclusivo, ha ispirato un popolare proverbio calabrese: “A trigghia no ‘a mangia cu’ ‘a pigghia. (La triglia non la mangia chi la prende)”.
Non resta allora che avvicinarsi al banco del pesce e fare l’occhio di triglia sperando di potersela accaparrare a un prezzo ragionevole!
(Autore: Marcello Marzani)
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