La mancata gestione degli impatti reali
Il Parlamento italiano ha recentemente espresso parere favorevole alla proposta di modifica della Direttiva Habitat dell’Unione Europea per il declassamento dello status di protezione del lupo (Canis lupus) da “specie strettamente protetta” a “specie protetta”. Il 6 maggio 2025, la Commissione Ambiente della Camera ha approvato la risoluzione con 144 voti favorevoli, 98 contrari e 20 astenuti, mentre la Commissione Agricoltura del Senato ha dato il proprio assenso alla proposta.
E ieri, mercoledì 8 maggio 2025, Il Parlamento Europeo con 371 voti favorevoli, 162 contrari e 37 astensioni, ha approvato il declassamento dello status del lupo da specie “strettamente protetta” a “protetta”, sancendo così un cambiamento significativo nella politica di conservazione europea
La frenetica corsa verso il declassamento del lupo solleva un interrogativo cruciale: perché tale urgenza nel ridurre le protezioni quando le misure concrete per mitigare gli impatti non sono mai state pienamente attuate? Questo affannoso iter legislativo, perseguito con determinazione da alcuni settori politici, appare paradossale considerando che il semplice cambio di status non risolverà affatto le problematiche di convivenza tra lupo e attività umane. Il declassamento, pur ottenuto con tanto zelo, non elimina automaticamente i danni al bestiame né offre soluzioni immediate alle comunità rurali, lasciando irrisolto il vero nodo della questione: l’implementazione efficace di strategie preventive e compensative che potrebbero rendere sostenibile la coesistenza.
La verità è che il declassamento sembra più una mossa politica che una soluzione concreta ai problemi esistenti.
Gli impatti non rimossi: la vera radice del problema
La convivenza con il lupo richiede strategie di prevenzione efficaci che finora sono state attuate in modo frammentario e insufficiente. Recinzioni elettrificate, cani da guardiania, ricoveri notturni per il bestiame sono soluzioni concrete che, quando implementate correttamente, riducono drasticamente le predazioni. Eppure, molti territori non hanno investito adeguatamente in queste misure preventive.
La mancata rimozione degli impatti reali ha portato a una situazione dove i conflitti sociali persistono e aumentano non perché il lupo sia “eccessivamente protetto”, ma perché le soluzioni concrete non sono state adottate in modo sistematico o, molto semplicemente, sono state completamente evase. Declassare il lupo senza aver prima esaurito tutte le possibilità di prevenzione è come curare i sintomi ignorando la malattia.
Secondo l’ISPRA, in Italia sono presenti circa 3.300 lupi, una popolazione che ha mostrato una netta ripresa dopo essere stata sull’orlo dell’estinzione. Tuttavia, le evidenze scientifiche mostrano che il lupo ha un impatto marginale sul comparto zootecnico: solo lo 0,065% del bestiame allevato in Europa è vittima di predazione da parte del lupo ogni anno. Questo dato indica chiaramente che il problema non è tanto la presenza del lupo, quanto la mancata adozione di misure preventive adeguate.
Il declassamento come catalizzatore di nuovi conflitti tra stakeholder
Invece di unire le diverse parti interessate attorno a soluzioni concrete, il declassamento rischia di esacerbare i conflitti tra i vari stakeholder del lupo. Da un lato, allevatori e alcune amministrazioni locali vedono nel declassamento una possibile soluzione rapida; dall’altro, il mondo scientifico, le associazioni ambientaliste e una parte significativa dell’opinione pubblica lo considerano un passo indietro ingiustificato.
Queste posizioni non fanno altro che allontanare le parti da un dialogo costruttivo e da soluzioni condivise. Gli studi scientifici dimostrano che l’abbattimento dei lupi non riduce sul medio-lungo termine le predazioni, ma in certi casi può perfino incrementare danni e conflitti, destabilizzando la struttura sociale dei branchi. Eppure, il dibattito pubblico si concentra sulla rimozione del lupo anziché sulla rimozione delle cause reali dei conflitti.
Inoltre, associazioni ambientaliste e scienziati hanno già presentato ricorsi legali contro il declassamento, citando la mancanza di basi scientifiche e l’esistenza di strumenti normativi già sufficienti per gestire i casi problematici. Questi ricorsi evidenziano come il declassamento, anziché risolvere i problemi, stia creando nuove fratture e innalzando il livello di conflitto sociale.
Chi trae vantaggio dai conflitti irrisolti?
A chi giova quindi mantenere inalterati gli impatti che il lupo provoca, alimentando così i conflitti tra le diverse parti interessate? Questa è la domanda chiave per comprendere le vere dinamiche dietro il declassamento.
Il mondo venatorio vede nel declassamento un’opportunità per un maggiore controllo della fauna selvatica (controllo che ancora oggi molti cacciatori continuano a confondere con la caccia!), mentre alcune fazioni politiche lo utilizzano come strumento per guadagnare consenso tra determinati elettorati. D’altra parte, alcuni allevatori preferiscono chiedere l’abbattimento dei lupi piuttosto che investire in misure di prevenzione che richiedono tempo, risorse e cambio di pratiche consolidate.
Paradossalmente, anche alcuni enti che dovrebbero lavorare per la riduzione degli impatti possono trarre vantaggio dal perpetuarsi dei conflitti, giustificando così la propria esistenza e l’allocazione di risorse. In questo complesso gioco di interessi incrociati, la mancata risoluzione dei problemi reali diventa quasi funzionale al mantenimento dello status quo o all’introduzione di cambiamenti che non affrontano le cause profonde dei conflitti.
Gli strumenti esistono già, manca la volontà di usarli efficacemente
Un elemento spesso trascurato nel dibattito pubblico è che la normativa attuale già consente interventi sui lupi problematici. Sia la Convenzione di Berna che la Direttiva Habitat prevedono già la possibilità di ricorrere ad abbattimenti in deroga per prevenire danni al bestiame e tutelare la sicurezza pubblica.
Ci sono quindi già oggi gli strumenti legislativi per intervenire nei casi in cui singoli individui presentino comportamenti problematici. Perché non usarli quando il problema è reale?
Il declassamento viene erroneamente presentato come necessario quando in realtà non aggiunge nuovi strumenti di gestione, ma rischia piuttosto di abbassare le barriere per interventi meno mirati e scientificamente fondati.
La mancanza non è quindi negli strumenti normativi, ma nella volontà politica di investire seriamente nella prevenzione e nella gestione dei conflitti. Il declassamento diventa così una “soluzione simbolica” che non affronta i problemi reali ma offre l’illusione di un’azione concreta.
Una spirale di conflitti crescenti
La situazione attuale rischia di innescare una spirale pericolosa: il declassamento non risolverà i problemi di fondo, gli impatti continueranno, i conflitti si intensificheranno, e si chiederanno misure ancora più drastiche. Questo circolo vizioso, invece di promuovere la coesistenza, rischia di portare a un regresso nelle politiche di conservazione.
Alcune regioni italiane hanno già dimostrato gravi carenze nel monitoraggio della specie, con lacune enormi nella raccolta dati e nella conoscenza effettiva della distribuzione del lupo e dell’impatto delle uccisioni illegali. Senza queste informazioni di base, come si può pretendere di gestire efficacemente la specie?
Il Piano nazionale di conservazione e gestione del lupo è bloccato da anni, e senza questo strumento fondamentale qualsiasi decisione rischia di essere priva di efficacia e visione. Il declassamento viene proposto in un contesto di carenze strutturali nella gestione della fauna selvatica, e anziché risolvere queste carenze, rischia di esacerbarle.
Conclusione: oltre il declassamento, verso soluzioni reali
Il declassamento dello status di protezione del lupo appare come un tentativo di offrire una risposta semplice a un problema complesso, senza affrontare le cause profonde dei conflitti. Anziché declassare il lupo, sarebbe necessario:
- Implementare seriamente e diffusamente le misure di prevenzione, con finanziamenti adeguati e assistenza tecnica agli allevatori.
- Approvare e attuare il Piano nazionale di conservazione e gestione del lupo.
- Investire nel monitoraggio scientifico della specie per avere dati affidabili su cui basare le decisioni.
- Promuovere un dialogo costruttivo tra i diversi stakeholder, basato su evidenze scientifiche anziché su percezioni o interessi particolari.
La vera sfida non è declassare il lupo, ma elevare il livello del dibattito e delle politiche di gestione della fauna selvatica. Solo così si potranno ridurre realmente gli impatti e abbassare il livello dei conflitti, promuovendo una coesistenza autentica tra attività umane e conservazione della biodiversità.
(Autore: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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