Ero tra i sentieri del cimitero quando l’ho vista: una donna con suo figlio, entrambi chinati a seguire qualcosa che si muoveva lentamente tra le tombe. Mi sono avvicinata incuriosita e ho scoperto che l’oggetto della loro attenzione era una salamandra pezzata (Salamandra salamandra), con quella sua livrea inconfondibile di nero lucido e macchie gialle che sembravano dipinte a mano. Il piccolo anfibio avanzava con i suoi movimenti goffi, apparentemente ignaro di trovarsi in un luogo così solenne.
“Guarda mamma, quanto è bella!” sussurrava il bambino, con quella meraviglia che solo i più piccoli sanno conservare di fronte alla natura. La madre sorrideva, ma teneva una mano protettiva sulla spalla del figlio. “Sì, è bellissima, ma non toccarla. Ricordi cosa ti ho detto? Ha delle sostanze sulla pelle che potrebbero darti fastidio”.
Mi sono fermata a osservare anch’io, e la scena mi ha fatto riflettere. Eravamo ai primi di novembre, eppure quella salamandra era ancora in giro, attiva, alla ricerca probabilmente di un posto dove nascondersi. In condizioni normali, nella fascia prealpina, a quest’ora dell’anno, avrebbe già dovuto essere in letargo, rintanata in qualche anfratto umido e riparato dove passare i mesi freddi in uno stato di torpore. Ma le temperature di questi giorni non hanno nulla di normale. Le giornate miti, quasi primaverili per la stagione, stanno confondendo i ritmi naturali di molti animali. La crisi climatica non risparmia nemmeno le creature più piccole, alterando cicli biologici perfezionati in milioni di anni di evoluzione.
La salamandra continuava il suo cammino tra le lapidi, e la mamma ha colto l’occasione per spiegare al figlio qualcosa di affascinante. “Vedi, per noi è praticamente innocua, ma per gli animali che vorrebbero mangiarla è un’altra storia”. E aveva ragione. Le salamandre, come molti altri anfibi dai colori vivaci, portano nella loro pelle un arsenale chimico sofisticato. Quelle macchie gialle non sono solo decorative: sono un avvertimento, un cartello che dice ai predatori di stare alla larga.
Le tossine che producono sono sostanze complesse, accumulate nelle ghiandole cutanee, pronte a scoraggiare qualsiasi bocca troppo curiosa. Ma qui sta il miracolo: come fa la salamandra a non avvelenarsi da sola? È una domanda che gli scienziati si sono posti a lungo. La risposta sta in minuscole modifiche delle proteine nei loro corpi, mutazioni evolutive che hanno reso i loro recettori nervosi insensibili alle proprie tossine, pur mantenendo intatte tutte le normali funzioni biologiche. È come avere una serratura che respinge la chiave sbagliata ma continua a funzionare perfettamente con quella giusta.
Il bambino ha allungato una mano, istintivamente, ma la madre l’ha fermato con dolcezza. “No, tesoro. Possiamo guardarla, ma non toccarla. È il suo modo di difendersi”. E così la salamandra ha proseguito il suo viaggio, forse alla ricerca di quel rifugio invernale che avrebbe dovuto raggiungere settimane fa, se solo le stagioni avessero ancora il ritmo di una volta.
Mentre ci allontanavamo, ho pensato a quanto sia strano e insieme poetico incontrare un simbolo di adattamento proprio in un luogo dedicato alla memoria. Quella piccola creatura, con il suo corpo vulnerabile protetto solo da un sottile strato di veleno, continua a esistere in un mondo che cambia troppo in fretta. E noi, testimoni occasionali del suo passaggio, possiamo solo sperare che trovi la sua strada, che riesca ad adattarsi ancora una volta, come la sua specie fa da ere geologiche.
(Autore: Paola Peresin)
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