Sostenibilità urbana su sei zampe: le autostrade invisibili degli impollinatori

Immaginate di essere un’ape solitaria che si sveglia in un piccolo giardino comunitario di Brooklyn. Il vostro nido è nascosto nel terreno, in una cavità che avete scavato con pazienza. Avete fame, e i fiori del vostro giardino stanno sfiorendo. Guardate verso l’orizzonte urbano: grattacieli di vetro e acciaio si stagliano contro il cielo, edifici bassi si susseguono in tutte le direzioni. Da qualche parte, a poche centinaia di metri, c’è un parco con prati fioriti. Ma come raggiungerlo? Volate sopra i palazzi o li aggirate? E se le vostre ali non bastassero per coprire quella distanza?

Questa non è fantascienza da miniaturizzazione alla “Ant-Man”, ma la realtà quotidiana di migliaia di insetti impollinatori che abitano New York City. Un gruppo di ricercatori del Marymount Manhattan College e della St. Joseph’s University ha deciso di indossare, metaforicamente, le ali di queste creature per capire come si muovono nella giungla urbana. Hanno tracciato mappe dettagliate di quelle che hanno chiamato “bug roads”, autostrade per insetti, utilizzando solo dati aperti e software gratuiti. Il risultato è una fotografia sorprendente di quanto sia difficile, per un impollinatore, navigare tra i canyon di cemento della metropoli.

L’ape da miele europea (Apis mellifera), quella che vediamo ronzare instancabile nei documentari e che produce il miele dei nostri supermercati, è una maratoneta dell’aria. Può volare per chilometri, esplorare territori vastissimi, comunicare alle compagne dove si trova il bottino migliore con quella danza waggle che gli scienziati hanno impiegato decenni a decifrare. Ma l’ape europea è un’immigrata, una specie portata dall’uomo. Le vere protagoniste del paesaggio americano sono altre: centinaia di specie di api solitarie, creature schive che non vivono in alveari, non hanno regine da servire, non producono miele per nessuno. Scavano il loro nido nel terreno o nelle fessure del legno, raccolgono polline per i propri piccoli e poi se ne vanno. Sono fondamentali per la biodiversità locale, ma hanno un tallone d’Achille: non volano lontano. Molte specie faticano a superare i mille metri dal nido, alcune non vanno oltre qualche centinaio di metri. In un prato naturale o in una foresta questo non è un problema. In una città come New York diventa una questione di sopravvivenza.

I ricercatori hanno preso le mappe digitali di tutti gli spazi verdi pubblici dei cinque distretti newyorkesi: oltre quattromila aree che includono giganti come Central Park, piccoli giardini tascabili incastonati tra i palazzi, campi da gioco dove l’erba cresce ai margini del cemento, cimiteri storici dove gli alberi crescono da generazioni. Poi hanno fatto qualcosa di ingegnoso: hanno tracciato linee rette tra questi spazi, migliaia di possibili percorsi che un’ape potrebbe seguire volando in linea d’aria. Cosa hanno scoperto? Che l’ottantasei per cento di questi percorsi diretti attraversa almeno un edificio. Alcuni ne incontrano quarantasette. Il palazzo più alto intersecato raggiunge i quattrocentotrenta metri, un muro verticale che si staglia tra un parco e l’altro.

Ma forse, si sono chiesti i ricercatori, le api non volano dritte. Forse aggirano gli ostacoli, come faremmo noi camminando per le strade. Hanno quindi utilizzato un metodo matematico chiamato Dijkstra, che trova il percorso più breve evitando le barriere. Hanno creato una griglia virtuale sulla città, dove ogni quadrato di cinquanta metri per lato rappresentava un possibile passo del viaggio. Gli edifici diventavano zone proibite, corridoi invalicabili. Il sistema ha calcolato migliaia di percorsi alternativi, serpeggianti tra i palazzi. Il risultato? I percorsi sicuri sono mediamente più lunghi del venti per cento rispetto alla linea retta. Può sembrare poco, ma per un’ape con un raggio d’azione di cinquecento metri, aggiungerne cento può significare non arrivare mai a destinazione, o arrivarci così esausta da non avere energie per tornare al nido.

Ma la distanza non è l’unico problema. C’è anche la questione di cosa si trova quando si arriva. I ricercatori hanno usato una tecnologia affascinante chiamata LiDAR, che utilizza impulsi laser sparati da aerei per mappare il territorio con precisione millimetrica. Questi laser rimbalzano su ogni superficie e tornano indietro, permettendo di distinguere gli alberi alti dagli arbusti medi, l’erba bassa dal terreno nudo, le foglie dei platani dai tetti degli edifici. Analizzando oltre centotrentacinque chilometri quadrati di vegetazione, hanno calcolato quanto habitat plausibile ci fosse in ogni spazio verde, quanto cibo potenziale per gli impollinatori.

I numeri raccontano una storia preoccupante. Solo un quarto dei parchi e giardini pubblici ha abbastanza vegetazione per sostenere un’ape con un raggio di foraggiamento di appena cento metri. Per quelle che possono volare fino a mille metri, la percentuale crolla sotto l’uno per cento. Anche raggruppando i parchi vicini, quelli che potrebbero teoricamente funzionare come un unico grande habitat collegato, meno di un terzo offre risorse sufficienti per api con capacità di volo medie. La città appare come un arcipelago di isole verdi sparse in un oceano grigio, troppe piccole e troppo distanti per sostenere popolazioni stabili di impollinatori selvatici.

Eppure questa ricerca non è un epitaffio per gli impollinatori urbani, ma piuttosto una mappa per salvarli. I ricercatori hanno identificato soluzioni concrete, interventi che potrebbero trasformare New York da labirinto ostile a rete accogliente di corridoi ecologici. La prima idea riguarda i tetti. Non tutti i palazzi sono grattacieli. Anzi, oltre il novantacinque per cento degli edifici nel raggio di mille metri dai parchi è più basso di venticinque metri, l’altezza del Jacob K. Javits Convention Center, un mastodontico centro congressi di Manhattan che ospita sul tetto il più grande giardino pensile della città. Quel tetto è piantumato principalmente con piante grasse del genere Sedum e ospita anche alcune arnie di api da miele. È probabile che quelle api volino sia sul tetto che nei parchi vicini a livello del suolo. Ma la maggior parte degli edifici di New York non ha tetti verdi. Se anche solo una frazione venisse trasformata in giardini pensili con fiori selvatici, quegli edifici smetterebbero di essere muri e diventerebbero ponti, pietre di guado sospese nell’aria urbana.

Studi recenti hanno dimostrato che la biodiversità sui tetti verdi diminuisce con l’altezza, e già a ventiquattro metri le visite degli insetti calano drasticamente. Questo significa che la strategia dovrebbe concentrarsi sugli edifici bassi, quelli che dominano numericamente il paesaggio urbano. Trasformare i tetti di palazzine di tre, quattro, cinque piani in oasi fiorite potrebbe creare una rete tridimensionale di habitat, un sistema di autostrade aeree per impollinatori che oggi possiamo solo immaginare.

Poi ci sono i piccoli parchi, quelli che occupano forse l’equivalente di un isolato, spesso meno. Sono la maggioranza silenziosa del verde pubblico newyorkese, e l’analisi LiDAR ha rivelato che hanno la più alta proporzione di vegetazione rispetto alla superficie totale. Non sono sprecati in prati sterminati o viali asfaltati, ma concentrano arbusti, aiuole, alberi. Piantare fiori che attraggono impollinatori anche in questi spazi minuscoli può avere effetti sproporzionati. Un giardino tascabile ben progettato diventa una stazione di servizio dove un’ape può rifornirsi prima di proseguire il viaggio. E se questi piccoli parchi fossero gestiti non come entità separate ma come nodi di una rete, pensando a quali specie di piante favorire per creare corridoi fioriti, l’effetto si moltiplicherebbe.

Gli alberi stradali sono un’altra risorsa nascosta in piena vista. Camminando per New York se ne incontrano continuamente, prigionieri delle loro piccole aiuole circondate da grate di ferro. Il calcolo dei percorsi ottimali ha rilevato che ogni “autostrada per insetti” interseca in media una trentina di questi alberi. Oggi sono poco più che ombre verdi, ma potrebbero diventare oasi. Basterebbe arricchire le loro aiuole con fiori selvatici, trasformare ogni platano, ogni tiglio, ogni ciliegio ornamentale in una piccola fermata lungo il viaggio. Il costo sarebbe minimo rispetto alla costruzione di nuovi parchi, ma l’impatto potrebbe essere enorme. Gli alberi creerebbero una ragnatela di microhabitat distribuiti uniformemente nel tessuto urbano, una rete capillare che collega i grandi parchi attraverso mille piccoli punti luminosi.

C’è anche la questione dei lotti vuoti, quegli spazi abbandonati che costellano ogni città. A New York ne esistono oltre quattordici chilometri quadrati, ma solo il tredici per cento è coperto da vegetazione spontanea. Sono opportunità sprecate. Con interventi minimi, questi terreni potrebbero diventare trampolini di lancio per gli impollinatori, habitat temporanei in attesa di una destinazione definitiva. Anche se restassero selvatici solo per pochi anni, contribuirebbero alla rete ecologica urbana.

Perché tutto questo sforzo per insetti che molti nemmeno notano? Perché gli impollinatori selvatici non sono un lusso estetico ma un indicatore di salute ecosistemica. Sono loro a mantenere la diversità delle piante native, a garantire la riproduzione di specie che altrimenti scomparirebbero. L’ape da miele europea è preziosa, certo, ma non può sostituire centinaia di specie specializzate, ognuna coevoluta con determinati fiori, ognuna con il proprio ruolo ecologico. Una città che ospita popolazioni stabili di impollinatori nativi è una città più resiliente, con giardini più ricchi, con spazi verdi che funzionano davvero come ecosistemi e non come decorazioni sterili.

E qui emerge un aspetto straordinario di questa ricerca: tutto è stato fatto con strumenti gratuiti e dati pubblici. I ricercatori hanno usato QGIS, un software open source di cartografia, e Python, un linguaggio di programmazione libero. Le mappe degli edifici, dei parchi, degli alberi stradali erano tutte scaricabili gratuitamente dai portali open data della città. Anche i dati laser LiDAR, quella tecnologia sofisticata che ha mappato la vegetazione con precisione millimetrica, erano disponibili pubblicamente grazie al servizio geologico statunitense. Questo significa che qualsiasi città al mondo, a patto di rendere disponibili i propri dati geografici, potrebbe replicare l’analisi. Un gruppo di cittadini preoccupati per il verde urbano, un’amministrazione comunale lungimirante, un’associazione ambientalista con un computer e un po’ di tempo potrebbero mappare le proprie “autostrade per insetti”, identificare i colli di bottiglia, proporre soluzioni mirate.

La democratizzazione di questi strumenti cambia il gioco. Non serve più essere un istituto di ricerca con budget milionari per studiare la connettività ecologica urbana. Serve curiosità, impegno, la volontà di guardare la città con occhi diversi. E forse, proprio questa accessibilità è il contributo più importante dello studio: non solo ha tracciato le mappe degli impollinatori di New York, ma ha mostrato come farlo ovunque.

Manhattan, con i suoi palazzi che sfiorano il cielo e un’altezza media degli edifici superiore ai venti metri, rappresenta la sfida più dura. Lì i grattacieli sono veri e propri sbarramenti verticali, probabilmente insormontabili per la maggior parte degli impollinatori. Gli altri quattro distretti hanno margini di miglioramento più ampi, con edifici più bassi e spazi verdi più estesi. Ma anche Manhattan non è perduta: i suoi parchi storici, i giardini pensili esistenti, le migliaia di alberi stradali potrebbero essere il punto di partenza per una rivoluzione verde silenziosa.

La sostenibilità urbana del ventunesimo secolo non può essere solo questione di pannelli solari ed edifici a basso consumo energetico. Deve includere la natura, dare spazio alla biodiversità, riconoscere che una città sana è una città abitata non solo da umani ma da un’intera rete di creature viventi. Gli impollinatori sono sentinelle di questa salute ecologica. Quando prosperano, significa che i corridoi verdi funzionano, che le piante si riproducono, che l’ecosistema urbano respira.

Torniamo alla nostra ape solitaria di Brooklyn, quella che si era svegliata affamata cercando nuovi fiori. Immaginiamo ora che il suo viaggio sia diverso. Esce dal giardino comunitario e vola verso un piccolo parco vicino, dove un’aiuola fiorita le offre nettare. Da lì raggiunge l’aiuola di un platano stradale, poi un altro albero, poi un tetto verde su una scuola di tre piani dove fioriscono le margherite selvatiche. E infine, dopo aver seguito questa catena di oasi, arriva al grande parco che aveva intravisto all’orizzonte, pieno di prati fioriti e possibilità. Non ha dovuto sorvolare grattacieli, non si è persa nel deserto grigio del cemento. Ha seguito un’autostrada per insetti, invisibile agli occhi umani ma concreta come le strade su cui scorrono le auto.

Questa visione non è utopia. È un futuro possibile, a portata di mano, che richiede solo la volontà di guardare le città come ecosistemi complessi e di tracciare, come hanno fatto i ricercatori di New York, le mappe delle vite minuscole che le abitano. Le autostrade per insetti sono già lì, nascoste tra i palazzi. Bisogna solo renderle percorribili.

(Autrice: Paola Peresin)
(Foto: archivio Qdpnews.it)
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