Delitto della contessa Onigo, lo scontro sociale tra miseri “pisnenti” e nobiltà terriera nel caso giudiziario del 1903 rievocato dallo scrittore Gian Domenico Mazzocato

L’11 marzo del 1903 Linda Onigo, contessa trevigiana di religione valdese, venne uccisa nel giardino del suo palazzo dal “pisnente” Pietro Bianchet. I “pisnenti” (o bisnenti, cioè due volte niente) erano braccianti che non disponevano di terra in proprietà.

Avevano appena un tugurio dove abitare, a malapena sostentati dal lavoro saltuario delle loro braccia,  e in parte dell’anno erano disoccupati. Per sopravvivere  molti erano costretti a qualunque cosa, compreso l’elemosina e il furto.

Oppure c’era la strada dell’emigrazione in Brasile e Argentina, verso cui si riversarono i 150 mila contadini che, dopo l’unificazione del regno d’Italia (1861), lasciarono in massa la provincia di Treviso.

Insieme allo scrittore trevigiano Gian Domenico Mazzocato abbiamo ripercorso i momenti salienti di questa fosca vicenda d’inizio secolo, visitando il tempietto di Onigo dove la nobildonna fu sepolta.

Pietro Bianchet faceva parte dei miserabili che coltivavano le terre della ricca (e avarissima, secondo i suoi contemporanei) contessa Zenobia Teodolinda Onigo detta Linda, figlia naturale e adottiva del conte Gugliemo Onigo nata dalla relazione con la cameriera svizzera di confessione valdese Caterina Jaquillard, nonché ultima erede della millenaria dinastia degli Onigo, già moglie del conte Oliviero Rinaldi di Asolo dal quale si separò.

Alle 16.15 dell’11 marzo di 118 anni fa, nel parco in riva al Sile di Palazzo Onigo a Treviso (oggi ci sono i giardinetti di Riviera Margherita), la nobildonna sessantenne venne uccisa con due colpi d’ascia dal braciante Bianchet, analfabeta ventiseienne nato a Nogarè (Belluno), malato di pellagra. Viveva con la moglie Maria, in attesa del secondo figlio,  in una misera casupola di Trevignano, di proprietà della contessa  compresi i due campi in affitto che coltivava.

Quel giorno Pietro si trovava a Treviso con altri fittavoli al servizio degli Onigo, per eseguire i lavori di manutenzione del parco. Si rivolse alla contessa per chiederle un po’ di grano e un piccolo prestito per poter rientrare a Trevignano, avendo saputo che il giorno prima la moglie aveva partorito una bambina.

Linda Onigo, che gli aveva già rifiutato due balle di fieno, rispose ancora no. L’uomo reagì mozzandole la testa con due colpi dell’ascia che stava usando per lavorare nel parco. Venne arrestato in piazza dei Signori, non oppose resistenza. Il delitto generò un caso giudiziario che tenne banco a lungo nell’opinione pubblica trevigiana dell’epoca, che in larga parte espresse una clima ostile nei confronti della contessa uccisa, “malata di avarizia”, come dicevano gli atti processuali. Per il popolo la contessa divenne il carnefice di un’intera classe sociale: i braccianti servi della gleba.

Visto che si temeva per l’ordine pubblico, la contessa Linda venne sepolta in tutta fretta il 13 marzo 1903, in un tempietto aperto del giardino dove oggi c’è il palazzo delle Opere Pie di Pederobba.

Il 2 marzo 1904 la Corte di Assise di Venezia emise la sentenza: Pietro Bianchet venne condannato a 8 anni e 9 mesi. La corte, anche sotto la pressione mediatica, riconobbe la seminfermità mentale e tenne conto delle condizioni di miseria e sfruttamento in cui maturò il delitto.

Un caso giudiziario eclatante per quei tempi, ma destinato a non essere più ricordato per quasi un secolo. Fino a quando Gian Domenico Mazzocato, nel 1997,  non riesumò tutta la vicenda nel suo fortunato romanzo “Il delitto della contessa Onigo” (Santi Quaranta Editore).

L’opera propone, con l’artificio del manoscritto ritrovato, la stesura di due registri stilistici: uno, realistico che riguarda il delitto storicamente accaduto; l’altro, più psicologico, sorge dal diario del conte Francesco Avogadro degli Azzoni, amico della contessa che rievoca soprattutto il processo a Bianchet.

Mazzocato racconta, in modo serrato e coinvolgente, la tragedia di un mondo antico, scolpendo figure indimenticabili nella storia della civiltà contadina e dei ceti padronali veneti, tenendo sullo sfondo i paesaggi della Pedemontana e del Montello.

La memoria popolare ha tramandato a lungo la “leggenda” sulla sepoltura della contessa, che sarebbe stata inumata a Onigo insieme al suo cavallo. Gian Domenico Mazzocato è tornato a scavare nella storia del delitto nel 2014, quando per iniziativa delle Opere Pie di Onigo e dell’architetto restauratore Fiorenzo Bernardi, è stato riportato all’antico splendore il tempietto che ospita le spoglie mortali di Caterina (Caterina o Catterina) Jaquillard Onigo, di suo marito Guglielmo Onigo, della loro figlia Zenobia Teodolinda Costanza.

“Nell’occasione sono state riesumate le tre salme, con molta commozione e qualche grande sorpresa” dice lo scrittore. Del cavallo bianco sepolto con la contessa con c’è traccia, mentre sono emersi altri aspetti inediti, illustrati in un libro da Fiorenzo Bernardi, con uno scritto di Mazzocato.

“Quando ho esaminato i resti della contessa Linda, ho potuto notare che le era stato eseguito il taglio netto della calotta cranica superiore, dato non corrispondente ai due colpi inferti dal Bianchet sulla nuca”, racconta oggi lo scrittore, “La mia ipotesi è che, con molta probabilità, un anatomo patologo dell’epoca, immagino anche chi ma non lo posso dire, abbia eseguito una autopsia di cui non c’è assolutamente traccia negli atti processuali, per esaminare le caratteristiche anatomiche del cervello della defunta. In quegli anni erano diffuse le teorie lombrosiane, legate alla conformazione cranica e somatica attribuita ad autori di azioni criminali. Probabilmente un seguace di Lombroso volle verificare se la crudele cattiveria della contessa fosse dovuta a una particolare conformazione della sua materia cerebrale. È una mia ipotesi, formulata sulla base di varie circostanze, ma è molto probabile che abbia una sua fondatezza”.

(Foto e video: Qdpnews.it © riproduzione riservata).
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