Vajont, 9 ottobre 1963 ore 22,39: è la più grande tragedia italiana, furono 1.910 i morti. Zaia: “Una ferita mai rimarginata”

1.910 morti accertati che riposano nel cimitero monumentale di Fortogna, di cui 487 bambini e ragazzi di età inferiore ai 15 anni: è questa la ferita “sulla carne viva” che ha lasciato in eredità la diga del Vajont, ancor oggi la settima più alta del mondo (la quinta tra quelle ad arco) con i suoi 261,60 metri d’altezza.

Tina Merlin, la giornalista bellunese del quotidiano L’Unità che seguì il caso Vajont fin dal principio, il giorno seguente la carneficina avvenuta ad Erto, Casso e Longarone scrisse: “Tutti sapevano, nessuno si mosse” e “Magari fossi riuscita a turbare l’ordine pubblico!”.

Un riferimento chiaro alla denuncia per diffamazione che ricevette nel 1959 dalla Sade, la società veneziana costruttrice della diga, che la accusò di “diffondere notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” tramite i suoi articoli. Il 30 novembre 1960, tuttavia, fu assolta dal tribunale di Milano perché il fatto non costituiva reato.

Il cimitero monumentale di Fortogna, frazione di Longarone

La Merlin fu assolta perché aveva raccontato e continuava a raccontare le sempre più frequenti scosse di terremoto, le enormi crepe che si aprivano sul versante del monte Toc, la strada che circondava il bacino crollare dentro di esso, la paura e la rabbia inascoltate della gente che vedeva l’acqua crescere e le fatiche di una vita sparire in un bacino di 168,715 milioni di metri cubi.

Poi, alle 22.39 del 9 ottobre 1963, accadde la tragedia che l’Italia e tutto il mondo appresero con enorme sconcerto, ma ormai era troppo tardi.

Longarone era soltanto una distesa di fango, corpi dilaniati, detriti, sopravvissuti svuotati della voglia di vivere; Erto fu dichiarata inagibile e i cittadini evacuati contro la loro volontà tra Valcellina, Pordenonese e Udine; Vajont, il nuovo Comune in cui alcuni di loro si trasferirono, un luogo senz’anima.

Diga del Vajont: uno dei tanti progetti per ricordare la tragedia

Oggi, 58esimo anniversario della tragedia, il governatore Luca Zaia ha affermato: “Da quel giorno – continua Zaia – il nome Vajont è e resterà sempre nei nostri cuori, nella memoria collettiva, nei libri di storia. Anche quest’anno, ancora una volta, rivolgiamo alle vittime e alle loro famiglie un deferente ricordo, ai soccorritori un grazie colmo di gratitudine, a chi seppe rimboccarsi le maniche e ricostruire, ammirazione totale”.

Ma è alle giovani generazioni che ora Istituzioni e società civile devono rivolgersi – si legge nel ricordo di oggi del presidente della Regione Veneto – perché, dalla storia del Vajont, fatta anche di errori, sottovalutazioni, scelte e comportamenti assai discutibili, traggano una lezione per il futuro, magari partendo da una visita al cimitero di Fortogna, simbolo primo del dolore per una tragedia determinata dalle mani dell’uomo“.

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Il paese di Erto, la valle del Vajont e l’immensa “M” che crollò nell’invaso della diga

“Al dramma del lutto si aggiunse la tragedia dei sopravvissuti che persero affetti e tutti i beni in pochi minuti – conclude Zaia -. Una ferita mai rimarginata nella memoria, un dolore mai venuto meno, cui ha contribuito anche la mancanza di risposte adeguate, a cominciare da quella definitiva alla richiesta di giustizia“.

Anche Mario Conte, sindaco di Treviso, oggi ha voluto essere vicino ai familiari delle vittime attraverso la testimonianza del superstite Italo Filippin: “Tutto accadde in un lampo. La caduta della montagna, la fuoriuscita dell’acqua, l’onda distruttiva, tutto è avvenuto nel tempo di tre-quattro minuti. Era notte. Chi non dormiva ebbe a malapena il tempo di capire quello che stava succedendo. O eri vivo o eri già morto“.

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Centro storico di Erto: “Dio ci salvi dagli sciacalli”

La gente sapeva che il pericolo veniva dall’acqua, dal lago artificiale. Cercammo di fuggire verso l’alto, verso la montagna. Ricordo una fuga disordinata, le urla… – continua Filippin -. Qualcuno prese l’iniziativa di accendere dei fuochi, attorno ai quali i superstiti cominciarono a raccogliersi e a contarsi. Si sentivano i richiami di altri gruppi di dispersi, alcuni provenivano dall’altra sponda”.

Quando arrivò l’alba sembrava di essere da un’altra parte, non si riconosceva più la valle. Molte borgate erano state letteralmente spazzate via, non c’era più nulla. Il livello del lago, riempito dalla montagna, si era alzato di quasi 20 metri se non ricordo male. Sulla superficie galleggiava di tutto, cadaveri, macerie, masserizie, suppellettili”.

(Foto: Qdpnews.it – Facebook Mario Conte).
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