Anche il bullismo subìto in giovane età può influire sui comportamenti violenti nei confronti delle donne all’interno di una relazione. Non si tratta, naturalmente, di un’attenuante per chi commette crimini che nella nostra società non dovrebbero più esistere, ma di un modo per comprendere che la violenza di genere non è necessariamente opera di persone con disturbi psicologici. Esiste però, o almeno vale la pena tentare, un percorso per affrontare e modificare questi comportamenti violenti negli uomini.


“Si tratta di esperienze che, se non riconosciute e affrontate, possono riemergere nel tempo sotto forma di comportamenti aggressivi o relazionali disfunzionali” spiega il criminologo Paolo Giulini, presidente del Centro Italiano per la Promozione della Mediazione (da lui fondato), responsabile del Presidio Criminologico Territoriale del Comune di Milano e conduttore di gruppi di trattamento per rei sessuali e per i loro familiari.
Giulini ha partecipato alla serata organizzata dalla Questura di Treviso contro la violenza di genere, durante la quale è stato proiettato il docufilm “Un altro domani” di Silvio Soldini e Cristiana Mainardi: un’ora e quaranta di testimonianze intense, con le voci di donne vittime di violenza – come due siciliane che hanno perso rispettivamente madre e figlia – ma anche di uomini autori, poi redenti, di maltrattamenti.
Dottor Giulini, esiste una correlazione tra bullismo subìto e comportamenti violenti o maltrattanti in età adulta?
“Sì, può esserci una correlazione. Molto spesso i giovani adulti che arrivano ai nostri centri raccontano, nella loro biografia, una storia di infanzia non protetta o segnata da episodi traumatici. Tra questi, il bullismo rappresenta spesso un passaggio: non è una costante, ma un elemento ricorrente in una parte significativa dei soggetti che trattiamo nei percorsi per uomini autori di violenza. Si tratta di esperienze che, se non riconosciute e affrontate, possono riemergere nel tempo sotto forma di comportamenti aggressivi o relazionali disfunzionali”.
Qual è il percorso che può intraprendere un uomo che ha commesso atti di maltrattamento o violenza?
“Il lavoro parte sempre da una valutazione individuale, ma la parte più efficace del percorso è quella di gruppo. A livello internazionale, la letteratura criminologica dimostra che l’intervento di gruppo, condotto da due operatori e con frequenza costante – almeno una volta alla settimana – è quello che produce i risultati migliori.
Nel nostro Paese, il legislatore ha introdotto l’obbligo di trattamento per chi ottiene la sospensione condizionale della pena. È una novità importante, introdotta nel 2019 e consolidata nel 2023: oggi chi ha una condanna per maltrattamenti, stalking o violenza sessuale può accedere alla sospensione della pena solo se frequenta obbligatoriamente un percorso di trattamento, anche con cadenza bisettimanale”.
Che tipo di lavoro si svolge concretamente durante questi percorsi?
“Si lavora sulla consapevolezza. Offriamo alle persone l’opportunità di parlare della propria storia, delle relazioni, delle emozioni e soprattutto di comprendere l’offensività delle proprie condotte. Non “cambiamo la testa” di nessuno – come si dice spesso – ma aiutiamo gli autori di violenza a rendersi conto di cosa accade all’altro, a sviluppare qualità empatiche che spesso mancano.
L’articolo 16 della Convenzione di Istanbul prevede proprio l’obbligo, per i Paesi firmatari, di istituire percorsi trattamentali di questo tipo, con l’obiettivo primario di prevenire le recidive. È un lavoro che non considera l’autore di reato come una persona “malata”, ma come un cittadino che deve imparare a gestire in modo diverso le proprie relazioni e a riconoscere la violenza, anche quella che ha subito o interiorizzato in passato”.
Quindi non parliamo di patologie mentali, ma di modelli culturali e relazionali?
“Esatto. Nella maggior parte dei casi non si tratta di persone con disturbi psichiatrici, ma di individui cresciuti dentro modelli culturali e relazionali distorti, spesso legati a una visione machista o di dominio. A volte, come lei ricordava, sono persone che da adolescenti hanno subito forme di bullismo o prevaricazione, e che da adulti tendono a riprodurre quelle stesse dinamiche, in modo disfunzionale, nelle relazioni affettive o familiari”.
Nel corso della sua carriera ha notato un’evoluzione nella consapevolezza su questi temi?
“Sì, e molto significativa. Basta pensare che fino agli anni Ottanta in Italia esisteva ancora il matrimonio riparatore, e che il delitto d’onore prevedeva pene ridotte per chi uccideva la moglie o la convivente. Da allora i passi avanti sono stati enormi, sia dal punto di vista culturale che giuridico. Negli ultimi anni, in particolare, abbiamo visto un cambiamento concreto: maggiore consapevolezza da parte delle forze dell’ordine, strumenti normativi più efficaci, magistratura e servizi territoriali sempre più attivi. È una rete che oggi esiste e funziona, anche se c’è ancora molto da fare”.
Cosa manca, secondo lei, per fare un ulteriore passo avanti nella prevenzione?
“Manca ancora una piena consapevolezza collettiva. Quando una relazione non funziona perché è segnata da logiche di controllo, di possesso o di violenza, bisogna avere il coraggio di chiedere aiuto. E spesso, invece, le persone non sanno nemmeno a chi rivolgersi. È su questo che dobbiamo continuare a lavorare: rendere visibili i luoghi e i percorsi di aiuto, perché chiedere aiuto non è un segno di debolezza, ma di responsabilità”.
(Autore: Simone Masetto)
(Foto: Simone Masetto)
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