A prima vista i numeri sono ottimi, anzi: schiaccianti. Ben il 78% delle aziende italiane ha avviato progetti per implementare l’Industria 4.0 nel proprio comparto produttivo. E solo il 22%, al contrario, è rimasto fermo. È quanto emerge dall’Indagine svolta da Boston Consulting Group, in collaborazione con l’istituto di ricerca Ipsos, sulla diffusione e l’impatto dell’Industria 4.0 nelle imprese italiane. Uno studio che ha coinvolto 170 aziende (piccole, grandi e medie) per 20 settori diversi. Risultati schiaccianti, si diceva. Ma, appunto, solo a prima vista.
A una seconda occhiata, il quadro comincia a cambiare. La maggior parte delle iniziative avviate, si nota, riguarda progetti di integrazione a bassa intensità (per esempio, l’acquisto di un robot, di una macchina, isolata, per svolgere un compito specifico). Solo il 24% ha approfittato degli incentivi (e dell’hype favorevole all’Industria 4.0 degli ultimi anni) per implementare operazioni ad alta maturità, cioè in grado di intervenire in tutta la catena del valore, e non solo in alcune parti, connettendola e aumentandone il valore aggiunto.
Sono poche aziende, insomma, e, cosa importante, sono solo quelle grandi. Le piccole mostrano al contrario una certa diffidenza: a livello teorico riconoscono le potenzialità delle nuove tecnologie, sia come driver di crescita sia come differenziale rispetto ai competitor. Ma a livello pratico non sanno quantificare la ricaduta dell’investimento: in altre parole, non sanno né quanto, né quando ne ricaveranno.
I dati a disposizione, del resto, risultano sibillini: il 54% di chi ha investito ammette di «non poter fare ancora un bilancio», mentre solo il 25% conclude di averne tratto un risultato positivo. Anche in termini di “conversion cost” (costi di produzione meno il costo dei materiali), l’implementazione dell’Industria 4.0 non sembra entusiasmare, con il 59% che si dice «impossibilitato di poter trarre delle somme, il 16% che non vede legami con l’Industria 4.0 e il 25% che mostra un segno positivo».
E qui sta il punto: la vera discriminante, la differenza che rende davvero il 4.0 un investimento fruttuoso e determinante è la sua intensità: «Solo il 14% delle aziende che ha implementato progetti a bassa complessità dichiara un aumento dei ricavi», ma la percentuale sale al 60% «per le imprese che hanno avviato progetti di elevata maturità». In sintesi: se si innova, bisogna innovare tutto, dai macchinari fino alle persone.
È un progetto che, come illustra il corporate office di Hitachi, intervenuto alla presentazione della ricerca di Bcg e Ipsos, «in Giappone va sotto il nome di Society 5.0», espressione che rende bene l’idea, evocando quell’estensione del dominio del digitale a ogni settore della vita quotidiana del cittadino. E, a maggior ragione, della linea produttiva dell’azienda. L’implementazione di digital e di Industria 4.0, allora, dovrà essere integrata in ogni passaggio della catena: dai macchinari alla raccolta dati, la cui analisi attraverso algoritmi di intelligenza artificiale porterà a miglioramenti continui della produzione, dei servizi e della produttività del lavoratore.
Il vero valore aggiunto, però, «risiede nell’essere umano», spiega. Innovare l’azienda non significa migliorare la qualità delle macchine ma, al contrario, «cambiare le competenze dei lavoratori, adattandole al nuovo quadro». Una smart-factory richiede operai smart e, soprattutto, un sistema di lavoro nuovo. «Meno gerarchico, più incentrato sul confronto e sulla condivisione delle idee».
Foto: archivio Qdpnews.it
Autore: Isinnova Srl – Sistema Ratio Centro Studi Castelli