Licenziamento illegittimo e sopravvenuta crisi aziendale

Con ordinanza n. 1888/2020, la Cassazione ha affermato che la reintegra nel posto di lavoro trova uno stop nel caso in cui la situazione di difficoltà e un mutamento della organizzazione rendano impossibile la ricostituzione del rapporto.

Oggetto dell’ordinanza della Corte di Cassazione è un licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, recante come causale “improcrastinabili esigenze economiche e di ragioni connesse all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro”.

I giudici hanno ribadito un principio già espresso dalla Corte: “la reintegra è un effetto della pronuncia emessa ex art. 18 Statuto dei Lavoratori estranea all’esercizio di diritti potestativi del datore di lavoro, che quindi in ogni momento può dedurne la totale o parziale inapplicabilità al caso oggetto di lite (Cass. n. 28703/2011).

La tutela reale del posto di lavoro non può spingersi fino ad escludere la possibile incidenza di successive vicende determinanti l’estinzione del vincolo obbligatorio. Tra queste ultime rientra certamente la sopravvenuta materiale impossibilità totale e definitiva di adempiere l’obbligazione, non imputabile a norma dell’art. 1256 C.C., che è ravvisabile nella sopraggiunta cessazione totale dell’attività aziendale, da accertare, caso per caso, anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori”.

“La cessazione dell’attività aziendale – prosegue la Corte nell’ordinanza 28.01.2020, n. 1888 – nel senso della disgregazione del relativo patrimonio, rende impossibile il substrato della prestazione lavorativa legittimando – secondo la disciplina degli artt. 1463 e 1256 C.C., da coordinare con quella specifica dei licenziamenti individuali (in particolare con la L. 604/1966) – il recesso del datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo (nel senso che la sussistenza di tale cessazione va accertata caso per caso, anche ove l’imprenditore sia stato ammesso alla procedura di concordato preventivo con cessione dei beni ai creditori, in quanto l’azienda ceduta potrebbe essere conservata o nuovamente ceduta come complesso per la continuazione di un’attività di impresa, si veda Cass. sent. n. 512/1984; n. 1476/1997)”.

Pertanto, “qualora nelle more del giudizio promosso dal lavoratore per la declaratoria della illegittimità di un licenziamento precedentemente intimato sopravvenga un mutamento della situazione organizzativa e patrimoniale dell’azienda tale da non consentire la prosecuzione di una sua utile attività, il giudice che accerti l’illegittimità del licenziamento non può disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ma deve limitarsi ad accogliere la domanda di risarcimento del danno, con riguardo al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto”.

La sopraggiunta impossibilità totale della prestazione costituisce, in sostanza, una vera e propria causa impeditiva dell’ordine di reintegra e della tutela ripristinatoria apprestata dall’art. 18 L. 20.05.1970, n. 300, precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di ottenere, sia pure per equivalente (con la corresponsione delle retribuzioni) il soddisfacimento del diritto alla continuazione del rapporto.

Da quanto esposto si deduce che, anche a voler ritenere ingiustificato il licenziamento, in ogni caso il giudice di appello non avrebbe potuto disporre la reintegra del dipendente per impossibilità sopravvenuta, cosa che invece la Corte d’Appello di Catania fece, in contrasto con la pronuncia del giudice di prima istanza, con una sentenza poi riformata dalla Cassazione.

Autore: Giorgia Granati

Total
0
Shares
Articoli correlati