Nella giornata internazionale del cammello mi ricordo che mia nonna aveva una teoria piuttosto bizzarra: sosteneva che Venezia fosse il più grande zoo di pietra del mondo. E no, non parlava dei piccioni di San Marco, che pure meriterebbero una menzione d’onore per la loro invadenza. Parlava delle creature scolpite sui palazzi, quelle che lei chiamava affettuosamente “le mie bestie di pietra”.
Ricordo ancora quando mi trascinava per le calli con passo deciso, il suo bastone che batteva ritmicamente sui masegni, mentre io, bambina annoiata, la seguivo sperando che prima o poi ci fermassimo in qualche pasticceria. “Vieni qua, pivella”, mi diceva, “oggi ti faccio vedere il cammello che non è mai stato nel deserto“.
E così, una mattina di primavera, mi ritrovai davanti al Palazzo Mastelli, in quella zona di Cannaregio che i turisti scoprono per caso mentre cercano disperatamente la strada per il Ghetto. “Guardalo bene”, mi disse la nonna puntando il dito verso l’alto, “questo qui è l’unico cammello di Venezia che non si è mai lamentato dell’acqua alta“.
Effettivamente, lì sulla facciata, un cammello di pietra guidava stoicamente la sua carovana, indifferente alle maree e agli spritz dei turisti. La nonna iniziò allora a raccontarmi la storia con quella sua particolare miscela di fatti storici e fantasie che la rendeva una cronista molto più divertente di Casanova.
“Vedi, cara la mia nipotina”, continuava mentre si sistemava gli occhiali, “nel 1112 tre fratelli greci sono arrivati qui scappando dai loro guai. Si chiamavano Rioba, Sandi e Afani, nomi che sembrano quelli dei Re Magi dopo una notte brava“. La storia, a sentir lei, era semplice: questi tre figuri avevano portato con sé un sacco di soldi e l’idea geniale di vendere spezie usando un cammello come insegna pubblicitaria.
“Ma nonna”, le chiesi una volta, “come facevano ad avere le spezie se il cammello era solo scolpito?”. Lei mi guardò con quella faccia che fanno le nonne quando pensano che i nipoti siano particolarmente tonti: “Ah, ma tu credi che il marketing sia un’invenzione moderna? Questi qui avevano capito tutto: metti un cammello sulla facciata e la gente pensa subito alle spezie dell’Oriente!”.
E aveva ragione, come sempre. Il fondaco dei Mastelli “all’insegna del Cammello” era diventato famoso in tutta Venezia. La nonna mi spiegava che era come avere il primo McDonald’s della laguna, ma invece degli archi dorati avevano un cammello di marmo.
Quello che mi colpiva di più, però, era come la nonna riuscisse a trasformare ogni pietra in una storia. “Guarda quelle statue laggiù”, mi diceva indicando le famose figure dei “Mori” nel campo vicino, “quelli sono i ritratti dei tre fratelli. Li hanno scolpiti vestiti come orientali perché all’epoca se non avevi un look esotico non vendevi nemmeno un pizzico di pepe“.
La statua di “sior Antonio Rioba” era la sua preferita. “Quello lì”, ridacchiava, “è diventato più famoso dei divi del cinema. Tutti lo conoscono, tutti gli passano davanti, ma nessuno sa che era un imprenditore delle spezie finito scolpito nel marmo perché la sua famiglia aveva fatto i soldi vendendo cannella e zafferano”.
Col tempo ho capito che la nonna aveva ragione: Venezia è davvero un libro di pietra scritto da animali impossibili. Il cammello dei Mastelli non è solo una decorazione, è la firma di un’epoca in cui la mia città era il crocevia del mondo, quando nei fondaci si parlava greco, arabo, armeno e dio sa quante altre lingue, e quando un cammello scolpito valeva quanto una campagna pubblicitaria su tutti i giornali d’Europa.
“Vedi, tesoro”, mi diceva sempre la nonna mentre tornavamo a casa, “Venezia è piena di storie che camminano sui muri. Basta saperle leggere”. E poi aggiungeva, con quel sorriso malizioso che le conoscevo bene: “E se proprio non ci riesci, inventatele. Tanto qui è tutto così assurdo che anche le bugie sembrano vere“.
Oggi, ogni volta che passo davanti al cammello di Cannaregio, sento ancora la voce della nonna che mi spiega come tre fratelli greci siano riusciti a diventare veneziani doc semplicemente scolpendo un cammello sulla facciata di casa. E penso che forse aveva ragione: a Venezia, dove i palazzi galleggiano e i ponti volano, anche un cammello può sentirsi a casa, purché sia fatto di pietra e abbia una buona storia da raccontare.
Finiti i ricordi, devo confessare che quello che mia nonna chiamava cammello è un dromedario (una sola gobba), ma alla sua età distinguere tra una e due gobbe su una scultura medievale era l’ultimo dei suoi problemi. E poi, diciamocelo chiaramente: in una città dove chiamiamo “ponte” una cosa che sembra un arcobaleno di pietra e “rio” quello che ovunque altrove sarebbe un vicolo allagato, confondere specie diverse, ma simili, è una cifra che persiste ancora oggi. Tanto è sempre un mammifero del deserto che ha finito per fare il veneziano, e questa, credetemi, è già di per sé una storia abbastanza improbabile.
(Autore: Paola Peresin)
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