Quando Giacomo Casanova, nell’autunno del 1756, dopo quindici mesi di prigionia trascorsi nei piombi di Venezia riuscì a evadere, riparò a Parigi: qui il veneziano trovò le condizioni ideali per riprendere, con rinnovato slancio, la propria esistenza libertina costellata di avventure amorose, giochi d’azzardo e iniziative imprenditoriali piuttosto discutibili. Nel corso della propria movimentata esistenza certamente lo afflissero diverse preoccupazioni, ma mai il timore di dare scandalo, ovvero di “turbare la serenità altrui con azioni, contegni o parole tali da evocare la colpa o il male”.
Spregiudicato e disinvolto, il Casanova in più circostanze palesò al contrario il malcelato compiacimento di essere proprio lui la pietra dello scandalo, ovvero la causa del dilagare di condotte immorali, indecenti e oscene.
Nella Grecia classica e nel mondo latino il termine skàndalon o scandălum indicava un ostacolo, sovente una pietra, posizionato dai cacciatori per far inciampare le prede. Un’insidia che ben presto assunse un ruolo preciso anche nel linguaggio figurato: nelle Sacre Scritture compare il termine lapis offensionis et petra scandali inteso come origine di atteggiamenti, comportamenti o azioni riprovevoli.
L’universo delle “cose scandalose” è pressoché sconfinato e comprende opere letterarie, immagini o pellicole giudicate immorali, azioni illecite commesse da uomini politici e atteggiamenti sessuali ritenuti inammissibili. Gli scandali, da sempre, suscitano imbarazzo e per questo, nei limiti del possibile, si cerca di evitarli o soffocarli. Dante colloca all’Inferno i “seminator di scandalo e di scisma” (discordia e divisione) e li condanna al perpetuo ferimento da parte di un demone armato di spada; il Boccaccio, dal canto suo, per dimostrare la natura malvagia e ignobile di ser Ciappelletto da Prato ne descrive il godimento nello spargere fra amici e parenti “inimicizie e scandali”.
Nell’antica Roma esisteva davvero la pietra dello scandalo: collocata vicino al Campidoglio, di foggia leonina e voluta (pare) da Giulio Cesare, serviva a punire e umiliare i commercianti falliti o i debitori insolventi costretti a ricadere per tre volte con le natiche scoperte sopra la pietra(culo nudo super lapidem) gridando “cedo bona” o “cedo bonis”, cedo i miei averi. Simili pietre, popolari anche nel Medioevo, sono ancora visibili a Modena e a Firenze: nella città medicea, sotto la loggia del Mercato Nuovo, una ruota in marmo bicolore serviva per la cosiddetta “acculata” di debitori e truffaldini, pratica dalla quale potrebbe derivare il termine vernacolare “sculo” (sfortuna) e la locuzione “essere con il culo per terra” (in difficoltà soprattutto economiche).
Un’altra celebre pietra dello scandalo è a Modena: è la Pietra Ringadora, un parallelepipedo in marmo rosso veronese posto vicino al Palazzo Comunale che, fra le varie funzioni, ebbe quella di castigare i cattivi pagatori. Rapati a zero, con un copricapo a forma di mitra e preceduti dal suono di una tromba, dopo aver fatto il giro della piazza nel giorno di mercato, essi dovevano “dare a culo nudo” sulla pietra del disonore ben unta di trementina.
Oggi la funzione delle pietre dello scandalo è divenuta appannaggio dei mass media e dei social, assai più efficaci e spietati dei sedili lapidei nello stigmatizzare e condannare immoralità vere o presunte, trasformando troppo spesso banali maldicenze in veri e propri scandali.
E se per Elsa Morante la storia non è altro che uno scandalo che si ripete da duemila anni Oscar Wilde, che dell’argomento era un esperto, due secoli fa dichiarò che lo scandalo non è altro che un pettegolezzo reso noioso e sgradevole dalla moralità.
(Autore: Marcello Marzani)
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