C’è una scoperta che la scienza ha fatto negli ultimi vent’anni e che merita di essere ribadita, perché è una di quelle cose che una volta capite cambiano il modo di guardare quasi tutto il resto. È semplice da enunciare: la nostra salute e quella del pianeta sono la stessa cosa. Non in senso poetico, non come metafora. Proprio in senso biologico, materiale, verificabile.
L’hanno chiamata One Health, una sola salute. L’idea è che la salute delle persone, quella degli animali e quella degli ecosistemi siano così intrecciate che non ha senso occuparsi dell’una ignorando le altre. È un po’ come scoprire che tre stanze che credevamo separate fanno in realtà parte della stessa casa, con porte che non avevamo notato.
Pensateci un momento. Un virus vive per millenni in equilibrio con i pipistrelli di una foresta. Poi quella foresta viene frammentata, gli animali selvatici si avvicinano agli insediamenti umani, e quel virus trova un nuovo ospite: noi. Non ci conosce, non siamo adattati a lui, e il risultato è una pandemia. Oppure, negli allevamenti si usano antibiotici in quantità, i batteri imparano a resistergli, e quando ci ammaliamo quelle medicine non funzionano più. Oppure ancora, una zona umida sana filtra l’acqua e contiene le piene, la draghiamo, e ci ritroviamo con l’acqua inquinata e le alluvioni sotto casa.
È tutto collegato. Ogni parte del sistema influenza le altre. Quando interveniamo su un elemento, le ripercussioni si propagano lungo la rete. La nostra salute non si costruisce solo negli ospedali e non si protegge solo con le medicine. Dipende dagli animali che alleviamo e da quelli che vivono liberi, dall’acqua che beviamo e dall’aria che respiriamo, dalle foreste che non vediamo e dai microrganismi che non sappiamo nemmeno di ospitare. Queste connessioni esistono che le riconosciamo o no. La differenza è che quando le ignoriamo, lavoriamo contro noi stessi.
Ecco, questo è il punto in cui di solito arriva l’elenco delle catastrofi, i numeri che salgono e quelli che scendono, il tono che si fa grave.
Ma forse quest’anno possiamo provare un’altra strada. Invece di spaventarci, proviamo a incuriosirci.
Perché la cosa straordinaria non è quanto sia fragile questo sistema di connessioni. È quanto sia sofisticato. Prendiamo la biodiversità: troppo spesso continuiamo a confonderla con le varietà agricole, il pomodoro di qui, la mela di là. Ma quelle sono “creature” nostre, plasmate da diecimila anni di selezione artificiale umana. La biodiversità è un’altra cosa: sta nel DNA delle specie selvatiche, in quell’archivio sterminato di soluzioni che la vita ha accumulato in miliardi di anni di evoluzione, senza il nostro aiuto e spesso nostro malgrado. È la varietà che permette alla vita di adattarsi, di rispondere, di inventare soluzioni.
È il fatto che nel nostro intestino vivono miliardi di microrganismi, e che da loro dipendono la nostra digestione, le nostre difese immunitarie, forse persino il nostro umore. È il fatto che un ecosistema con molte specie diverse tende a contenere naturalmente la diffusione delle malattie, perché i patogeni fanno più fatica a trovare l’ospite giusto. È il fatto che gli impollinatori selvatici — non le api domestiche, ma migliaia di specie di cui ignoriamo persino il nome — permettono ai campi di produrre, che i boschi filtrano l’acqua, che le zone umide assorbono le piene. Nessuno ha progettato questo sistema. Si è costruito in miliardi di anni di tentativi, errori, aggiustamenti. E funziona.
I grandi carnivori fanno parte di questa architettura. Quando parliamo di lupi e orsi, spesso la discussione si incaglia subito: da una parte chi li vuole proteggere a tutti i costi, dall’altra chi li considera solo un problema da eliminare. Ma se alziamo lo sguardo, la questione si rivela più interessante. I grandi predatori non sono un ornamento del paesaggio. Sono bricoleur degli ecosistemi; non costruiscono secondo un progetto, ma aggiustano, riequilibrano, rimettono a posto con quello che c’è. A volte la loro presenza tiene sotto controllo gli erbivori, che altrimenti brucherebbero ogni germoglio. La loro presenza cambia le abitudini delle prede, che evitano certe zone e lasciano alla vegetazione il tempo di ricrescere, con effetti a cascata che a volte ridisegnano interi paesaggi: versanti che si stabilizzano, sponde che smettono di franare, equilibri che si ricompongono. Ma non sempre, non ovunque, non allo stesso modo. Ogni territorio è diverso: il clima, la conformazione del suolo, la presenza umana, la storia di quel particolare ecosistema. Il bricoleur lavora con quello che trova, e quello che trova non è mai uguale due volte.
Questo non significa che la convivenza sia semplice, né che i problemi di chi vive e lavora nei territori abitati anche dai grandi carnivori siano immaginari. Significa che quelle difficoltà vanno affrontate sapendo cosa c’è in gioco. E che le soluzioni più intelligenti non sono quelle che eliminano il problema rimuovendo una specie, ma quelle che trovano modi di coesistere. Esistono già, queste soluzioni. Funzionano, se vogliamo farle funzionare. Non sono utopie: sono pratiche, replicabili, perfezionabili.
L’augurio per l’anno che viene è riuscire a guardare queste connessioni con curiosità, invece di ignorarle o viverle con ansia. Di vedere nei vincoli ambientali non solo limiti ma possibilità di fare le cose in modo più intelligente, più utile. Di capire che prendersi cura del territorio non è un lusso da ambientalisti ma una forma elementare di interesse personale.
Primo Levi, che di argomenti difficili se ne intendeva, diceva che comprendere è quasi il contrario di spaventarsi. Forse è questo che serve: non più allarme, ma comprensione. Non più prediche, ma conoscenza condivisa che aiuti a vedere le connessioni. Non più colpe da distribuire, ma soluzioni da costruire insieme.
La buona notizia è che la scienza ha già fatto il lavoro più difficile: ha capito come funziona il sistema. Abbiamo raggiunto una buona capacità predittiva. Ora tocca a tutti noi decidere cosa farne di questa conoscenza. E non è poco, ma non è nemmeno impossibile. È, anzi, una delle avventure più interessanti che potremmo intraprendere.
Buon bestiario e buona salute a tutti.
(Autore: Paola Peresin)
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