Non-luogo: una definizione che al suo interno comprende una negazione e che fa un po’ paura a chi abita in luoghi a vocazione turistica, soprattutto dopo aver capito di cosa si tratta. Il primo a coniare il termine “nonluogo” è stato un antropologo francese, Marc Augé, che nel 1992 probabilmente non aveva idea di come lo sviluppo del turismo di massa avrebbe accelerato la necessità di usare questa definizione. I non-luoghi, a quel tempo, erano i centri commerciali: aree vaste e “vuote” di contenuti, interessanti non tanto per ciò che sono, quanto per la concentrazione di persone e di attività commerciali.
E oggi, da regione focalizzata sulla concretezza, anche il Veneto si ritrova costretto ad ammettere per alcuni dei suoi luoghi più preziosi, una tendenza alla negazione del luogo stesso. Potrà sembrare un concetto astratto e difficile, ma basti visitare qualunque meta turistica che sia diventata popolare sui social network per comprendere appieno questa teoria.
Le riviste che trattano di viaggi (ma recentemente anche Repubblica) stanno descrivendo questa tendenza, che comincia a riguardare anche le “località minori”, siti turistici che collassano sotto il peso di una notorietà superficiale.
Alcune delle mete turistiche più famose della nostra regione non verrebbero più visitate per ciò che sono, ma per ciò che rappresentano sui social. In pratica, il “tag virtuale” batte la località fisica, la sua storia, le sue caratteristiche: se non fosse per dimostrare di esservi passati, si potrebbe anche evitare di andarvi. E quella foto, scattata a due passi dall’auto o dalla moto, e subito avidamente postata sui social, è la prova dell’aver visitato qualcosa, senza averlo guardato per davvero.
La differenza è che se un luogo d’interesse è tale per il panorama che offre, per le opportunità che dà, il non-luogo è una meta ambita perché in qualche modo si crede accresca la propria reputazione sociale, la propria cultura o chissà che altro. Secondo quanto segnalano anche le comunità residenti, i “candidati” ai nuovi non-luoghi potrebbero essere le Tre Cime di Lavaredo, il lago del Sorapiss, l’Osteria Senz’Oste di Valdobbiadene, il Tempio di Canova di Possagno e, ovviamente, Venezia.
Il fenomeno, guardandoci dallo spazio, riguarda tutto il mondo: nel 2019 uno scatto di Nirmal Purja, ambassador dell’asolana SCARPA, ha mostrato come anche l’Everest, la destinazione ambiziosa per eccellenza, sia in un certo senso diventato meta “del turismo di massa”, immortalando una lunghissima coda in salita. Non a caso, il governo nepalese ha recentemente imposto agli scalatori di non pubblicare fotografie scattate sull’Everest senza il suo consenso (regola dai più ignorata).
Le amministrazioni locali, le associazioni, alcune attività e gli enti di promozione turistica di questi territori stanno cercando di trovare delle alternative al “turismo inconsapevole”, portando il visitatore ad approfondire la conoscenza verticale dei luoghi e valorizzando altre località meno conosciute.
Sulle Tre Cime, però, come spiega un albergatore, “la maggior parte dei visitatori scende dall’auto e si fa una storia con lo sfondo della prima vetta, mangia un panino al rifugio e poi torna indietro, senza farsi mezza domanda”. I prati di montagna, sulle Dolomiti, in estate, si riempiono di nomi scritti con le pietre, quasi come se fosse obbligatorio “firmarsi” prima di andare via.
A Venezia, nel frattempo, i turisti si sdraiano all’ombra sulle tombe antiche del cimitero di San Michele (notizia di oggi, giovedì) e sulle acque azzurre del lago del Sorapiss la gente si porta il gommone, per prendere il sole come in spiaggia.
Negli anni futuri, quindi, per il Veneto si porrà una nuova sfida: quella di tutelare le proprie bellezze dall’ombra del non-luogo, portando il turista a visitare per vivere esperienze e non vivere esperienze tanto per visitare.
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