Modi di dire: prendere un granchio

L’altra sera ero a pesca sul litorale adriatico, vicino a Caorle. Improvvisamente mi sono reso conto di aver catturato qualcosa. La lenza era appesantita, ma stranamente non percepivo il caratteristico guizzo del pesce: al posto di una bella orata, sul verme si era infatti aggrappato un famigerato granchio blu delle dimensioni di una mano. Il crostaceo, trascinato sul bagnasciuga, dapprima ha allargato le chele in segno di sfida poi, in un battibaleno, ha riguadagnato la libertà inghiottito dal buio e dai flutti. Rimasto con un palmo di naso, ho constatato di persona cosa significhi prendere un granchio.  

L’incidentale cattura del granchio equivale infatti a commettere uno sbaglio grossolano, ingannarsi su qualcosa o su qualcuno, raggiungere un risultato inferiore alle aspettative e sperimentare una cocente delusione. Sull’argomento, ancora una volta, si rivelano preziose le informazioni contenute in uno scritto di Alessandro Parenti reperibile sul sito web dell’Accademia della Crusca.

 “Pigliare un granchio”, questa la prima ipotesi, pare avere a che fare con la pesca;  impadronitosi dell’esca, l’animale oppone una fiera resistenza dando al pescatore l’illusione di aver catturato una preda da trofeo. La frustrazione che segue è pari a quella di coloro che, gettate le reti per fare incetta di pregiati gamberi, devono accontentarsi di una manciata di umili granchi: circostanza dalla quale discenderebbe una lunga serie di modi di dire dialettali fra i quali il veneziano “chiapàr un granzo”.

Altrettanto curiosa, ma meno scontata, è la teoria secondo la quale prendere un granchio equivarrebbe a procurarsi una lieve contusione superficiale simile al pizzico di una chela. Conseguenza dell’uso maldestro di un arnese come il martello, questa ferita che si riconosce per la goccia di sangue sotto la cute in Toscana è detta “pulcesecca” e sembrerebbe collegata alla specifica espressione “prendere un granchio a secco”. Ebbene, se afferrare un granchio in acqua potrebbe essere perdonabile, afferrarlo sulla riva, ovvero non avvedersi dell’errore palese che si sta commettendo, è davvero inammissibile; e ciò vale anche per coloro che, ingenui o frettolosi, acquistano un oggetto dal valore decisamente inferiore al prezzo pagato.

Vittime delle adunche chele dell’implacabile crostaceo sono anche quei canottieri che, non sollevando il remo per tempo, lo lasciano troppo a lungo in acqua dando l’impressione che a trattenerlo siano gli uncini di un grosso granchio.

Animale così curioso da essere contemplato in astronomia e araldica, il granchio ha ispirato innumerevoli espressioni idiomatiche: gli avari hanno un “granchio in borsa o in scarsella” che con le chele ne impedisce l’apertura e scoraggia la ricerca dei denari; si “ha un granchio” quando si è colti da un crampo e “cavare un granchio dalla buca” vuol dire costringere qualcuno a uscire allo scoperto. 

Simbolo della laguna veneta, il granchio, con la sua inconfondibile silhouette, ha ispirato la descrizione di una delle più classiche raffigurazioni del Leone di San Marco, quella con le ali ripiegate a forma di cerchio e nota appunto come “leone in moleca”.  La moleca (o moèca) infatti non è altro che il granchio verde in fase di muta, privo del carapace e dunque particolarmente prelibato. Assieme al maschio (granzo) e alla femmina (masanéta o mazanéta), la moleca rappresenta uno dei pilastri della cultura gastronomica veneziana e dell’Alto Adriatico; ad essa Giuseppe Maffioli, nel “Ghiottone veneto”, ha dedicato un capitolo intitolato “Il difficile mestieretto del molecante”: una professione oggi in pericoloso declino per una serie di fattori fra i quali la preoccupante invasione del granchio blu. Un’emergenza che vede impegnati esperti di varie discipline, consapevoli dell’urgenza di “prendere un granchio”, ma quello giusto.  

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto: Marcello Marzani)
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