“Non chiamateli radiatori”: quelli di Maarmo sono piccole opere d’arte nate da una formula segreta

Maarmo (la doppia “a” fa la differenza) non identifica solo un marchio ma un nuovo approccio all’impresa sostenibile. Nata come startup nel 2018, i termoarredi di design targati Maarmo, non chiamateli radiatori, si stanno facendo strada nel settore dell’arredo di lusso. 

“La nostra è un’azienda green nel green”, sottolinea il manager Gianpaolo Pezzato aprendo le porte dello stabilimento di Villotta (Pordenone), un’ex officina affacciata su un’ampia area verde popolata da aironi, dove per ogni pannello venduto viene piantato un albero. Alberi da frutto e viti di pinot nero delimitano il retro e i lati dell’edificio, che dopo decenni di decadenza ha ripreso vita. 

“La scelta di creare qui la sede non è stata casuale – prosegue Pezzato – cercavamo un luogo abbandonato a cui dare un nuovo significato, proprio come facciamo con la polvere di marmo che da materiale di scarto qui trova una seconda possibilità”.

L’interno dell’edificio ospita un piccolo show room, il laboratorio di produzione e la sala per l’essicazione dei pannelli. La vivacità nell’atmosfera fa pensare ad un mix tra l’atelier di un artista e il laboratorio di un inventore.

In questi spazi avviene il 90% del processo di lavorazione del prodotto, mentre le componenti non realizzabili nello stabilimento provengono da aziende ad un massimo di 30 km di distanza. La materia prima, dall’aspetto simile alla farina, arriva qui in enormi sacchi dalle cave di marmo di Verona

“Il punto di partenza è la polvere di marmo che attraverso una ricetta segreta viene trasformata in lastre con ottime capacità di trattenere il calore e con le medesime caratteristiche estetiche del marmo”. Il processo di lavorazione è affascinante: una volta miscelata con l’acqua, la polvere finisce in una macchina impastatrice (proprio di quelle destinate ai panifici) fino ad ottenere una crema che poi viene versata in stampi di silicone. Gli stampi, realizzati a mano, conferiscono alle lastre la texture desiderata con una precisione tale da rendere il prodotto finale pressoché indistinguibile da un vero panello di tessuto o di rovere.

Dopo una giornata negli stampi, l’impasto di Maarmo è solido e pronto per essere sformato e trasferito nell’apposita sala di stagionatura dove riposerà per circa un mese all’aria secca. “All’interno della lastra in un secondo momento viene posizionata una resistenza elettrica o una serpentina di rame che sarà l’elemento riscaldante del termoarredo collegato ad una centralina”.  

Per la fase finale della lavorazione i pannelli finiscono nel piccolo atelier all’interno dello stabilimento dove vengono verniciati con vernici a base d’acqua e rifiniti con il pennello. Ogni pezzo è unico e si presta ad essere personalizzato senza porre limiti alla creatività. 

“Maarmo oggi è sinonimo di termoarredi, ma non si esclude che possa trovare anche altre declinazioni in futuro – spiega Gianpaolo Pezzato – L’unico limite che ci poniamo è la coerenza, si tratta di prodotti delicati che non si prestano a tutti gli utilizzi. Potrebbero certo, ma dovremmo derogare alla nostra regola aurea che non ammette trattamenti con agenti chimici”. 

Maarmo si sta facendo strada nel settore dell’arredo catturando l’attenzione di professionisti e grandi studi d’architettura alla ricerca di prodotti originali, con una storia alle spalle. È così che è arrivata la commissione da parte dello studio d’architettura che ha curato il restauro del teatro Odeon di Firenze dove oggi trovano spazio i termoarredi “made in Villotta”. 

Di recente l’azienda ha siglato una partnership con la casa di cristalli Swarovski che andranno ad impreziosire alcune linee luxury targate Maarmo. Mentre è un vero e proprio omaggio alla città lagunare la linea “Veneziaa” realizzata avvalendosi di un “fero da prora” originale firmato dall’artista che lo realizzò due secoli fa: un pezzo più unico che raro fornito in via eccezionale dall’associazione veneziana Arzanà (che custodisce imbarcazioni veneziane storiche) e maneggiato sotto la supervisione di un esperto della sovrintendenza.

“Il fero da propria è stato usato per creare lo stampo di quello che è già il prodotto identitario dell’azienda assieme all’ ‘Ubriaaco‘, che dopo essere stato immerso nella feccia di Raboso barricato del Piave trattiene il profumo del vino: altro omaggio al nostro territorio d’origine”.  

(Foto e video: Qdpnews.it ©️ riproduzione riservata).
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