Modi di dire: parlare a vanvera

Il principe della risata Antonio De Curtis, in arte Totò, sosteneva: “L’ignorante parla a vanvera, l’intelligente parla al momento opportuno, il saggio parla se interpellato, ‘o fesso parla sempre”. 

Parlare a vanvera, a sproposito, straparlare, blaterare, cianciare o vaneggiare sono tutte espressioni usate per sottolineare l’inconsistenza di una conversazione e stigmatizzare la superficialità di coloro che parlano soltanto per “dare aria alla bocca”.

Parlare a vanvera è un po’ come parlare al vento e per qualcuno, all’origine di questo modo di dire, potrebbe esserci proprio un’aria molto particolare… 

Nel ventunesimo canto dell’Inferno Dante incontra i barattieri, coloro che in vita si sono macchiati di una colpa ahimè molto attuale, la malversazione. Immersi nella pece caldissima come quella che d’inverno bolle “ne l’arzanà de’ Viniziani” (l’arsenale di Venezia), i dannati sono sorvegliati da una pattuglia di diavoli irriverenti che dopo essersi esibiti in una serie di pernacchie, salutano la partenza del Sommo Poeta e di Virgilio con un gesto osceno, un peto: “ed elli avea del cul fatto trombetta”.

Peto, flatulenza, venticello, puzzetta (solo per citarne alcuni) sono tutti termini che indicano la fisiologica emissione di gas intestinali, evento spesso accompagnato da rumori e odori a dir poco imbarazzanti. Se la biancheria intima imbottita con sostanze aromatiche o carboni attivi può limitare le conseguenze olfattive del rilascio gassoso, assai più complesso è dissimulare il fragore inconfondibile della “trombetta”.

In età moderna, quando per mitigare gli effluvi dovuti alla carente igiene personale si ricorreva a costosi profumi e massicce dosi di cipria, fra la nobiltà veneziana si diffuse un oggetto singolare, studiato per prevenire situazioni spiacevoli: la vanvera

Mutuato dalla civiltà egizia, l’ordigno consisteva in una specie di ventosa che si applicava alle natiche e che, attraverso un tubo, convogliava il gas intestinali in un sacchetto-contenitore. Le gonne sorrette da gabbie voluminose consentivano alle nobildonne di indossare i diversi modelli di vanvera durante le passeggiate o i balli. Non solo: la vescica, chiusa da un laccio, poteva essere svuotata con discrezione nei luoghi appartati. 

Gli uomini, sia nel talamo nuziale che nelle peccaminose alcove, utilizzavano una vanvera provvista di un tubo più lungo che aiutava a smaltire i gas fuori dalla camera. Un po’ come i moderni deumidificatori che, nelle afose giornate estive, riversano all’esterno delle nostre case il vapore acqueo. 

Secondo alcuni parlare a vanvera discenderebbe dall’ingegnoso oggetto e sarebbe un modo per paragonare i discorsi privi di senso a effimere flatulenze. Interpellata al riguardo, l’autorevole Accademia della Crusca fornisce una spiegazione esattamente opposta: è l’ingegnoso attrezzo ad aver mutuato il proprio nome da modi di dire che l’hanno preceduto e che avrebbero a che fare con la fànfera, la fanfara militare. 

Parlare, vestirsi, pettinarsi a vanvera equivale dunque a fare qualcosa con approssimazione, faciloneria, tanto per “dar fiato alle trombe”. Arte nella quale eccelleva monsieur Joseph Pujol, fantasista marsigliese vissuto a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento. “Le Pétomane”, questo il suo soprannome, riusciva a convogliare l’aria dell’addome in un tubo di gomma e con essa riprodurre il rumore dei tuoni o il verso degli animali. Sforzandosi era anche capace di smorzare la fiammella di una candela.  

Scherzi a parte, la flatulenza è un evento del tutto naturale e non di rado liberatorio.  In un bagno pubblico veronese pare che qualcuno abbia scritto: “Il pisso sensa il peto
l’è come sonar il violino sensa l’archeto”.

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto: Canva – Thinglass da Getty Images)
(Articolo di proprietà di Dplay Srl)
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