Modi di dire: essere succube di qualcuno

Malle Babbe di Frans Hals, foto dell’opera dalla Gemäldegalerie Berlin — immagine in pubblico dominio (fonte: Wikimedia Commons)

Nella prima metà del Seicento, nella quieta e operosa Contea di Valmareno e Solighetto, ai piedi delle Prealpi trevigiane, accaddero fatti riconducibili alla spaventosa caccia alle streghe che da almeno due secoli imperversava in Europa.

In Germania, Svizzera e Scozia migliaia di persone appartenenti perlopiù ai ceti più umili, e fra loro molte donne, furono imprigionate, subirono feroci torture, finirono sul rogo o sul patibolo per mano di inquisitori crudeli e fanatici. Sebbene meno virulenta che altrove, la caccia alle streghe fece le sue vittime anche in Italia e, all’ombra di Castelbrando, a farne le spese furono due povere popolane: Marcolina Galona da Marin e Cattarina Zorgna da Rolle.

Accusate dai compaesani di aver architettato oscure strigherie, sospettate dai giudici di intrattenere ambigui rapporti con Lucifero, le disgraziate si videro addossare colpe inverosimili: avvelenamenti, aborti, morti misteriose. Gli accusatori asserirono che chi aveva la sventura di venire a contatto con loro, misteriosamente, rigurgitava acqua nera, divorava terra, vomitava pallottole di peli, smetteva di allattare. Arrestate, condannate all’isolamento, private dei loro beni, Marcolina e Cattarina non vennero giustiziate ma, di fatto, furono bandite dalla società e drasticamente private del diritto di esercitare un mestiere.

Altrove, come detto, i giudici furono molto meno clementi: la perdita del raccolto per una gelata imprevista era sufficiente a scatenare episodi di autentica psicosi collettiva e a sguinzagliare gli inquisitori alla ricerca di un capro espiatorio. In questo clima di terrore fiorì una singolare letteratura demonologica dalla quale scaturirono manuali teologico-giuridici come il famigerato Malleus maleficarum, pubblicato nel 1487 in Germania e destinato alla repressione dell’eresia e del maleficio.

Il trattato cita, fra i protagonisti della stregoneria, una figura già nota nell’antica Roma: il sùccubo (o sùccube), un essere demoniaco con sembianze di donna o di giovinetto, abile nel tentare le proprie vittime e indurle a peccaminosi rapporti carnali. Manuali come il Malleus distinguevano fra succubi (femmine) e incubi (maschi), le prime alla perenne ricerca di uomini ai quali sottrarre il seme da destinare ai demoni di sesso per le loro turpi e peccaminose scorribande.

Poiché l’inquietante figura del succubo (dal latino sub cubare, giacere sotto) ha la particolarità di “sottomettersi ad altra persona in un rapporto venereo”, il vocabolo dapprima è divenuto sinonimo di donna adultera e, successivamente, è servito a designare l’individuo facilmente dominabile, debole, privo di personalità e propenso alla capitolazione. Essere succubo o succube di qualcuno significa assoggettarsi all’altrui volontà, rassegnarsi a vivere alla mercè del proprio datore di lavoro, del coniuge, dei figli, o della suocera. Chi è succube non osa sollevare il capo, ribellarsi, ma obbedisce con rassegnazione e subisce le prepotenze e le angherie quotidiane con stoica sopportazione.

Lungi dall’essere il demone perfido e perverso della tradizione latina e medievale, il succube dei nostri giorni ha le sembianze decisamente più dimesse e patetiche della vittima. Un debole a cui tendere la mano, se necessario, ma anche da scuotere affinché si riappropri del proprio ruolo e della propria dignità.

Martin Luther King, premio Nobel per la pace e leader della lotta contro la segregazione razziale sosteneva che, anche se non si è responsabili per la situazione in cui si versa, si rischia di diventarlo se non si fa niente per cambiarla.  Ci vuole coraggio certo: lo stesso che ebbe Marcolina Galona nell’estate del 1637 quando, incalzata dal magistrato a confessare la propria intimità con Lucifero, replicò fieramente: “Non ghe ne so niente né mai ho trattado con lui, né mai trattarò se Dio non me tuol il cervelo”. E dopo essere arrossita alquanto in viso aggiunse: “Picatemi e squartatemi che mai dirò altrimenti”. 

(Autore: Marcello Marzani)
(Foto: Malle Babbe di Frans Hals, foto dell’opera dalla Gemäldegalerie Berlin — immagine in pubblico dominio – fonte: Wikimedia Commons)
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