Il viaggio umanitario nei Balcani di Rete Progetto Pace: 20 ragazzi nei luoghi del conflitto più sanguinoso in Europa dal secondo dopoguerra

Sul pullman campeggia la scritta “Humanitarian International Trip”. Parte dal piazzale della chiesa di Dosson alle ore 7.50 di mercoledì 17 agosto, dopo aver caricato scatoloni e bagagli. A salire sono una ventina di ragazzi tra i 16 e i 19 anni residenti in Veneto, i quattro accompagnatori, due autisti che si daranno il cambio durante il viaggio e la moglie di uno di questi, professoressa in un Liceo di Belluno (nella foto di gruppo durante una tappa a Vukovar).

È così che inizia il viaggio umanitario 2022 organizzato da Rete Progetto Pace, che riunisce sotto di sé enti, associazioni e scuole sul territorio al fine di promuovere una cultura di pace. Nata intorno al 1994 per dare sostegno ai rifugiati provenienti dalla Bosnia e dal Kosovo durante la guerra nei Balcani, l’associazione ha ormai alle spalle 31 viaggi a sfondo umanitario e interculturale organizzati nell’Est Europa. 

Durante la settimana dal 17 al 23 agosto i ragazzi hanno avuto la possibilità di visitare Serbia, Macedonia del Nord, Kosovo e Montenegro, in un viaggio itinerante alla scoperta dei luoghi dell’Ex Jugoslavia ricchi di storia e di conflitti ancora oggi mai del tutto sopiti. 

Nei Balcani non sono arrivati a mani vuote: nei mesi di preparazione al viaggio infatti ciascun partecipante si è dato da fare nella raccolta di aiuti (vestiti, materiale per l’igiene, cancelleria, ecc.) poi “inscatolati” e caricati sul pullman. “L’idea alla base è anche quella di verificare in prima persona dove questi aiuti vanno a finire”, spiega Cristina Bari, organizzatrice del viaggio e parte della Rete. Tra le realtà a cui hanno fatto visita ci sono: un centro rifugiati a Belgrado, la comunità Rom e la casa delle Suore di Madre Teresa a Skopje, la casa-famiglia di Klina in Kosovo (fondata da una coppia di volontari della Caritas umbra vent’anni fa circa), un centro per bambini disabili a Ulcinj in Montenegro.

Diversi sono stati anche i momenti di gemellaggio interculturale con i ragazzi del posto. In particolare a Belgrado dove la Rete ha avuto modo di incontrare un gruppo di studenti serbi delle scuole medie facenti parte di un progetto di educazione alla pace e di mediazione dei conflitti, con cui hanno svolto alcuni giochi e attività. Lazar, bambino serbo, dice di amare l’Italia, anche se la lingua la parla poco e comunica in un inglese spigliato. “Can you take me with you in Italy?” chiederà alla fine.

 “Qui ho capito che il gioco non è solo un divertimento, diventa un vero e proprio linguaggio”, riflette Rajbir, 16 anni, facendo anche riferimento all’esperienza successiva della casa-famiglia in Kosovo, dove hanno passato metà giornata, cena compresa, insieme ai bambini e ragazzi della struttura. I bambini molto spesso sono il collante tra popoli e generazioni, ricorda Cristina, fondatrice insieme al marito Massimo della casa. 

Un’altra parola chiave del viaggio, oltre a “solidarietà”, è stata “memoria”. Sì, perché andare nei Balcani senza conoscere la storia che c’è dietro è un po’ come buttarsi in mare aperto senza aver prima imparato a nuotare. Se non altro, un salvagente è necessario. 

A Belgrado hanno visitato il Museo di Jugoslavia, costruito nei pressi di quella che fu la casa del maresciallo Josip Broz Tito; a Vukovar, una città simbolo della guerra di secessione croata, al confine tra Serbia e Croazia, c’è stata la visita di un ospedale di guerra e del grande cimitero, mentre in Kosovo, a Prekaz, hanno fatto tappa al memoriale di Adem Jashari, una sorta di Garibaldi kosovaro, leader della resistenza kosovara ai tempi del conflitto con la Serbia.

C’è stato però un incontro che forse più di altri ha suscitato interesse e curiosità sul versante storico: quello col contingente italiano della Nato, da cui è scaturito un racconto narrato da chi la guerra l’ha vista sin dal primo momento in cui ha messo piede in Kosovo nel giugno del 1999 e la puzza di carogna impregnava le loro narici. E i toni duri non si sono risparmiati in una serata in cui le curiosità rivolte ai militari hanno spaziato dall’obiettivo della loro missione in Kosovo, alla responsabilità della comunità internazionale durante il conflitto più sanguinoso che l’Europa ricorda dalla fine della seconda Guerra mondiale, dalla carriera militare alla ritirata delle truppe americane in Afghanistan.

Cristina Bari, che fa parte dell’associazione dal 2015, nelle ultime ore di pullman prima di rientrare in Italia, prenderà la parola per la consueta resa dei conti finale: “Il primo viaggio mi ha cambiato la vita. I legami che si creano qui sono importanti e possono durare negli anni. Una cosa che mi ha colpito”, e qui parla rivolgendosi direttamente a loro, quei ragazzi che nonostante le infinite ore di corriera sembrano non averne ancora abbastanza, “sono stati i vostri occhi, alle volte tristi, arrabbiati, felici. Avete fatto tantissime domande intelligenti, di persone curiose. Continuate ad emozionarvi, ad essere così…” E per concludere prende la parola Marco, il fedele autista, che alla domanda che più di qualcuno gli pone “Quali sono i viaggi più belli che hai fatto?” risponde sempre “Quelli con la Rete”. “Molte volte si dice ‘Ah, i giovani d’oggi’. Questo viaggio mi ha fatto vedere un’altra faccia della medaglia, forse nascosta, ma che c’è. A dimostrazione di come anche questa generazione ha voglia di fare qualcosa, di cambiare il mondo, anche se noi vecchiotti vi vediamo così apatici, già sconfitti. Invece qui vedo ragazzi che già solo per il fatto di essere venuti sentono in partenza di volere un cambiamento”.

E la speranza di un cambiamento, soprattutto nei Balcani, sta tutta nelle nuove generazioni, per superare asti e rancori che durano da una vita lì, in quella terra martoriata dove i ponti non uniscono, ma dividono.

(Foto: per concessione di Rete Progetto Pace).
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