La grande (e poco conosciuta) importanza della biodiversità e dei servizi ecosistemici per il Pil mondiale

Sappiamo tutti che il PIL (come misura di beni e servizi) di uno Stato non rappresenta certo il grado di felicità e benessere a cui tutta l’umanità aspira, ma, assieme ad altri, risulta l’indicatore che ne stima sicuramente la probabilità. Come dire che se è pur vero che i soldi non fanno la felicità è altrettanto vero che felicità e benessere (qualsiasi cosa voglia dire) non li si può raggiungere certamente attraverso i debiti, come ben dice la signora Pina.

In questo bestiario voglio parlare degli economisti, gente pratica, con cui (finalmente) si riesce a far di conto.

Quanto vale la presenza del Capriolo nel tuo territorio?”. Era questo il titolo di una conferenza che nel 1994 organizzammo all’Osservatorio Faunistico di Pordenone, la prima conferenza riguardante il “Capitale naturale” (ne seguirono altre cinque!) dove i biologi relazionavano assieme agli economisti.

Anticipavamo i tempi? Francamente direi che arrivavamo in ritardo nell’affrontare argomenti e dibattiti in voga già da vent’anni, ma di fatto eravamo anticipatori a casa nostra, anche se ritardatari cognitivi. Allora infatti era difficile, se non addirittura del tutto incomprensibile, accostare un valore a creature viventi non domestiche (tutti possono conoscere il valore di una vacca da latte, di una gallina, di un ettaro di prosecco o di un meleto, un po’ meno quanto vale un camoscio o un delfino), ma, fortunatamente, dicevo che gli economisti sono gente pratica, e non a caso in quegli anni cominciarono a fare “naturalmente” sul serio.

Il 15 maggio del 1997 uscì su Nature (assieme a Science la rivista scientifica più prestigiosa esistente) l’articolo intitolato Il valore del capitale naturale e dei servizi ecosistemici scritto da scienziati ed economisti delle maggiori università statunitensi ed europee. Da lì, un crescendo. Alla LSE (London School of Economics) cominciarono i primi corsi di laurea in Economia dell’Ambiente, e nel 2007 finalmente la politica batté un colpo; alla riunione dei ministri dell’ambiente del G8+5 di Potsdam (Germania) venne lanciato un appello per un’analisi globale dell’importanza economica della biodiversità, dei costi della perdita di biodiversità e della mancata adozione di misure di protezione rispetto ai costi di un’effettiva conservazione, Sigmar Gabriel (allora ministro dell’Ambiente in Germania) e Stavros Dimas (allora commissario europeo per l’ambiente) decisero di portare avanti e lanciare l’iniziativa TEEB (economia degli ecosistemi e della biodiversità) sotto la guida di Pavan Sukhdev (banchiere tedesco).

I decisori politici parlano, ma non agiscono. Gli imprenditori invece capiscono e si preoccupano. Il perché è piuttosto chiaro agli addetti ai lavori, ma oscuro ai più. E così 12 anni dopo il primo rapporto TEEB viene affidato uno studio alla Swiss Re (uno dei principali fornitori mondiali di assicurazione con sede a Zurigo, che nel 2019 ha fatturato 49,31 miliardi di dollari) che nel 2020 rivela come più della metà del PIL globale dipenda direttamente o indirettamente da biodiversità e servizi ecosistemici. Gli imprenditori ora vogliono discutere di biodiversità, e hanno stimato indicatori e indici su cui investire (più o meno come il PIL, ma “roba” più seria). Ma mentre gli imprenditori si preoccupano per futuri investimenti, i decisori politici confondono ancora la biodiversità con razze di domestici e cultivar mentre il resto vagheggia di paesaggi. E noi aspettiamo.

(Foto: Freepik).
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